LE SFIDE PER
L'ECONOMIA
di Piero Bassetti
In queste
pagine cercheremo di analizzare quale visione operativa delle forze
attive in campo economico può generare, una volta acquisita
la coscienza dei gravi problemi che travagliano il pianeta, una
prassi diversa da quella che abbiamo tutti sotto gli occhi, una
prassi, bisogna pur dirlo, che appare il risultato di ciò
che è esattamente contrario alla coscienza, ovvero l'incoscienza.
Ora, è
utile e necessario chiederci quali sono le forze attive che hanno
più bisogno di avere una coscienza chiara dei problemi che
affliggono il mondo avendo, per di più, un grande impatto
su questo stesso mondo.
Non esito ad affermare che si tratta delle forze della trasformazione.
Tuttavia, ormai la sola coscienza non basta, assieme alla coscienza
è necessario mettere in campo una forte responsabilità.
Infatti, se molti fra coloro che sono all'avanguardia per quel che
concerne la trasformazione, basta pensare al Club di Roma, hanno
una chiara coscienza del-l'insostenibilità dello sviluppo
così com'è oggi, purtroppo ciò non induce a
una responsabilità conseguente.
Come tutti sanno, nonostante gli appelli e i suggerimenti di eminenti
personalità, il presidente della potenza mondiale egemone,
George W.
Bush, non ha sottoscritto il trattato di Kyoto che avrebbe, se applicato,
dato una boccata di ossigeno a questo nostro mondo che respira a
fatica.
Il fatto è che finora si pretendeva di trovare una forte
coscienza dei gravi problemi a cui va incontro il nostro pianeta
tra le file dei politici, dimenticando che se la scienza si allea
con le forze della produzione, la politica si determina in quell'ambito
e non più soltanto nelle sedi istituzionali che ne avevano
il monopolio e che tra l'altro sono in crisi, sulla scia della crisi
che da almeno un paio di decenni ormai attanaglia lo Stato nazionale.
Si tratta,
del resto, di una problematica che mi coinvolge in prima persona
in quanto presidente della Fondazione Bassetti che si occupa della
responsabilità nell'innovazione.
L'innovazione, infatti, è diventata un processo solo apparentemente
"imprenditoriale".
In realtà, da quando la scienza ha assunto il ruolo che tutti
le riconosciamo nella società moderna, nel crogiuolo dell'impresa
si combinano, accanto ai fattori economico-produttivi, anche gli
elementi caratterizzanti del nostro progresso umano e civile.
Ne risulta una nuova miscela che ha pervaso gran parte delle decisioni
proprie della politica.
Secondo Bruno
Latour, autore di Non siamo mai stati moderni e Politiche della
natura, quella scienza, quella tecnica, quella democrazia di cui
noi andiamo tanto orgogliosi, al punto di imporle agli altri, sono
state costruite separando i rapporti di forza politici e quelli
di ragione scientifici, ma fondando sempre la forza sulla ragione
e la ragione sulla forza.
Se una lezione dobbiamo trarre dal mito di Frankenstein, afferma
Latour, è simmetrica e inversa rispetto a quella tratta daVictor,
lo sventu-
rato autore del celebratissimo mostro.
Nel momento in cui si percuote il petto piangendo lacrime di coccodrillo
per aver giocato all'apprendista stregone innovando a torto e a
traverso, egli dissimula sotto questo peccato veniale il peccato
mortale di cui la sua creatura lo accusa giustamente: essere scappato
dal laboratorio lasciandola a se stessa, con il pretesto che, come
tutte le innovazioni, la creatura era nata mostruosa.
Si parla di politiche scientifiche, sottolinea Latour, ogni volta
che occorre decidere sulle ricerche da interrompere, da prolungare
o da iniziare, ogni volta che si deve decidere della sterilità
o della fecondità dei protocolli d'esperienza.
In effetti, noi non abbiamo bisogno di
scienze politiche ma di politiche scientifiche, ossia di una funzione
che permetta di qualificare la fecondità relativa delle esperienze
collettive, senza che essa venga subito accaparrata dagli scienziati
o dai politici.
Il tema della responsabilità e di chi deve assumersela è,
naturalmente, vastissimo.
Nel mio intervento odierno mi limiterò ad esporre alcune
considerazioni per quel che concerne la responsabilità dell'impresa
che, spesso e volentieri, è il vero luogo dell'innovazione
e quindi della trasformazione o evoluzione che dir si voglia della
nostra società e del nostro pianeta.
Ora, ci sono tre modi diversi di intendere l'impresa per quel che
riguarda l'atteggiamento di quest'ultima nei confronti della sfida
evoluzionista.
Un primo modo è quello di considerare l'impresa come un soggetto
passivo che deve imparare ad adattare i suoi comportamenti all'evoluzione
in atto nel mondo che la circonda.
E deve farlo in modo tale da coglierne tutte le potenzialità
o, quanto meno, evitando di esserne danneggiata.
Un secondo modo sarà invece quello di porre l'impresa, di
fronte all'evoluzione, nel ruolo di soggetto attivo, di soggetto
cioè attento a cogliere tutte le possibilità offerte
dall'evoluzione ma in nessun modo responsabilizzato alla determinazione
dei relativi contenuti.
Il terzo modo
si ha, infine, se si ipotizza la necessità e la possibilità
di un'impresa che ricalchi quella delineata da Ervin Laszlo
nel suo libro Navigare nella turbolenza: la dirczione di impresa
del terzo tipo.
In questo terzo caso il ruolo dell'impresa sarà di soggetto
organico, di soggetto cioè collegato organicamente al suo
contesto statico e dinamico, in un quadro la cui evoluzione si rivelerà
più o meno "sostenibile" anche in relazione e per
effetto dei comportamenti della e delle imprese.
Un'evoluzione di cui l'impresa dovrebbe rendersi conto di far inesorabilmente
parte e di cui dovrebbe profondamente sentire la corresponsabilità
in quanto sotto-sistema autoevolvente e co-determinante il più
generale sistema evolutivo planetario.
Come scrive Romano Trabucchi nella prefazione del libro in questione,
una situazione nella
disordine e squilibrio, per un altro, è capace di ricavare
dal disordine ordine e equilibrio".
Solo nel terzo
caso, va da sé, il ruolo dell'impresa sarà di reale
responsabile partecipazione al quadro evolutivo del sistema socioculturale
globale nel quale il mercato è immerso.
Tuttavia,
per quel che riguarda il grande pubblico e soprattutto fra i politici
è radicata la convinzione che non sia affatto bene che tra
i compiti e le responsabilità dell'impresa si includa quello
di partecipare a definire le direzioni evolutive di una determinata
società, tale compito dovendo rimanere di competenza delle
istituzioni politiche.
Questa convinzione
è dovuta al fatto che ci siamo abituati a vivere in un mondo
di soggetti economici e istituzionali tra i quali sono state portate
avanti con successo due operazioni culturali che hanno fortemente
intaccato il senso di responsabilità producendo i seguenti
risultati: 1) due soggetti economici - quello micro (l'impresa)
e quello macro (il mercato) -sono stati deresponsabilizzati trasformandoli
da soggetti, in qualche modo politici, in meccanismi come tali apolitici;
lavoro, diventato sempre più immateriale, mobile, flessibile,
e la dissoluzione dei ter-ritori sui quali il controllo dei processi
in atto può essere effettuato.
La prima trasformazione ha distrutto il tradizionale assetto disciplinare
dei processi lavorativi perché ha riportato il lavoro, i
suoi strumenti, nella testa degli uomini, ne ha fatto delle protesi
della corporeità dei lavoratori.
Il secondo fenomeno è quello della fine dello Stato.
Ora, appunto la fine dello Stato-nazione ha riproposto il tema della
gerarchizzazione del mondo, del suo controllo.
Fallita in
tutto il mondo l'esperienza di programmazione di ispirazione socialista,
il capitalismo moderno cerca di rendere interne al sistema forze
adeguate a raccogliere le nuove sfide tra le quali quella ecologica
è certamente la prima e più seria.
Come è stato posto in rilievo dalle riflessioni del Club
di Budapest e in particolare dal professor Laszlo, il sistema economico
globale mostra un'evidente propensione all'autodistruzione o quantomeno
a un fortissimo rischio di degrado.
Radicali cambiamenti del nostro modo di consumare e di produrre
devono essere posti all'ordine del giorno.
assunta a riferimento possa essere prevalentemente la grande impresa
nella quale l'attribuzione di una responsabilità - anche
meta-economica e come tale almeno parzialmente politica - alla persona
dell'imprenditore non stupisce più di tanto.
Tuttavia, per raggiungere risultati nelle direzioni auspicate poche
imprese illuminate del terzo tipo potrebbero non bastare.
Ritengo, anche e soprattutto per quel che riguarda un contesto come
quello italiano caratterizzato da un'importante presenza della p.
m.
L, che occorrerà fare in modo che su questa problematica
si chinino anche un buon numero di imprese piccole.
Per concludere,
vorrei ribadire quel concetto già richiamato all'inizio e
che, a mio parere, deve restare centrale nel dibattito sulle visioni
che vogliamo avere del pianeta: avendo l'innovazione trovato nell'impresa
il nuovo crogiuolo in cui viene attuato il progresso tecno-scientifico,
un'impresa irresponsabile non può essere assunta come soggetto
adatto a stare alla base del problema che qui siamo chiamati a dibattere.
Proprio perché
resta vero che qualunque nuova visione per il pianeta può
scaturire
2) i parametri di valore assunti per entrambi i contesti sono stati
sempre più allontanati da quelli che incorporavano sensibilità
suscettibili di essere coniugate in modo, tatù sensu, meta-economico
o ecologico.
Le conseguenze di quanto appena detto non sono di poco conto.
Inoltre, qualcosa di molto simile si è prodotto pure nei
riguardi del Principe per antonomasia: il Governo nazionale.
Se fino a ieri si era assunto la responsabilità di elaborare
i valori a cui doveva sottostare l'economia ad esso soggetta, oggi
è costretto ad attenersi a regole sopranazionali.
Sembra quasi che, approfittando della globalizzazione, il capitalismo
e la democrazia moderna abbiano organizzato un sistema di pensiero
che, sui grandi temi tipo "dove va il mondo", sia riuscito
a deresponsabilizzare sia il consumatore che l'imprenditore che
il governante.
L'autore di
Impero, Toni Negri, in un recente dibattito apparso su "Micromega",
sostiene che la globalizzazione pone due grandi questioni: la trasformazione
del
Tuttavia, gli appelli a una cultura più consapevole, malgrado
il grande sforzo delle più diverse organizzazioni internazionali
alle quali si è aggiunta anche l'ONU, sembrano aver lasciato
il quadro a un livello del tutto insoddisfacente.
Consumatori e produttori continuano a ritenere che le variabili
da ottimizzare non includono quelle implicate dalla "sfida
evolutiva".
L'atteggiamento del Club di Budapest è, in proposito, assolutamente
chiaro: "Al termine di questo secolo - scrive E.
Laszlo in L'uomo e l'universo - le ultime tracce della classica
cultura di impresa dell'età industriale dovranno essere eliminate.
Non sarà più sufficiente concentrarsi sulle operazioni
interne dell'azienda; ci sarà bisogno di un'ampia visione
e di una responsabilità che si renda sensibile agli orientamenti
e agli sviluppi sociali e ambientali".
Ma a quale tipo di impresa parla il Club di Budapest? Solo a quelle
ritenute suscettibili di essere o diventare imprese del "terzo
tipo" o a tutte? Certo, la prima impressione è che in
questi enunciati l'impresa
solo da chi il pianeta lo "agisce", da chi lo sottopone
a tutti quei cambiamenti che, se incontrollati, produrranno nuovi
e sempre più funesti "mostri di Frankenstein",
allora deve rimanere altrettanto vero che chi "agisce"
il pianeta deve sentirsene ed esserne responsabile.
Insomma, una
nuova visione per il pianeta deve essere compiuta a partire dall'innovazione
e solo un'innovazione attuata responsabilmente perché espressa
da un'impresa responsabile è in grado di essere un consapevole
e positivo fattore politico.
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