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"Conoscenza,
pace, felicità: il messaggio dell'India"Prof.
Stefano Piano I.
Lunedì 4 agosto 2003 il quotidiano "La Stampa" di Torino ha pubblicato
l'annuncio che il prossimo Novembre la Chiesa Cattolica darà il suo assenso
alla produzione di cibi transgenici e alla clonazione su animali e piante, ritenuto
addirittura "doveroso", sulla base dell'unanime giudizio degli scienziati,
che hanno proclamato univocamente che gli OGM non costituiscono un pericolo per
l'uomo. Come se la scienza "galileana" non si basasse sull'osservazione
della realtà fenomenica, ma fosse al contrario capace di prevedere il futuro
circa le conseguenze dell'uso di tali alimenti da parte dell'uomo e in generale
nel ciclo vitale. Il tutto con il plauso del solito cardinale "televisivo"
Ersilio Tonini, basato sul vecchio assioma che "la terra è al servizio
dell'uomo". Anche se il fatto, e insieme il dibattito - a volte anche
polemico - che ne seguì sui mezzi di comunicazione di massa, non mancò
di attirare la mia attenzione, suscitando anche una serie breve, ma significativa
di riflessioni e di piccole indagini che hanno caratterizzato gli inizi della
mia abituale feria d'agosto, non intendo qui entrare nel vivo della questione
- che peraltro esula, almeno in parte, dall'oggetto abituale dei miei studi -
per non annoiare chi mi ascolta con discorsi sull'uso che si fa, nei paesi "ricchi",
di certi prodotti vegetali e sull'utopia - a mio avviso fondata su una vera menzogna
- secondo la quale la coltivazione e il consumo dei medesimi prodotti, ma geneticamente
modificati, risolverebbe l'immenso problema della fame nel nostro pianeta. Consapevole
e convinto del fatto che "i poveri li avremo sempre con noi" e che -
se solo lo volessimo - potremmo forse e finalmente, e semplicemente, cercare di
cominciare ad "amarli", preferisco andare con la memoria al testo della
lettera scritta e inviata dal capo indiano Scattle al "grande capo bianco"
di Washington, l'allora Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, il quale
aveva proposto di acquistare una parte del territorio indiano e, in cambio, istituire
una riserva per i pellirosse. Vi si legge, a proposito del "possesso"
della terra, che tutta la terra è sacra, perché intrisa del sangue
delle passate generazioni e che i pellirosse sono "selvaggi" e quindi
non possono capire il modo di pensare dell'uomo bianco, ma sanno "almeno
questo: non è la terra che appartiene all'uomo, ma è l'uomo che
appartiene alla terra
Non è l'uomo che ha tessuto la trama della
vita. Egli ne è soltanto un filo
". II. Il monito contenuto
in questo importante documento politico e culturale trova una conferma nella solida
e articolata argomentazione che caratterizza i diversi sistemi di pensiero dell'India
brahmanica e, in particolare, quello fra essi che esprime, per così dire,
il punto di vista (darshana) "cosmologico"; il suo nome, Sâmkhya-darshana,
allude al fatto che si tratta in un punto di vista espresso attraverso l'enumerazione
(in sanscrito: samkhyâ) delle "categorie della realtà"
(tattva). Non diversamente dagli altri darshana, anche il Sâmkhya è
uno dei due elementi costitutivi di una coppia: si completa infatti con lo Yoga-darshana
o yoga-shâstra, ovvero con quella dottrina che insegna la pratica di una
disciplina del corpo e della mente grazie alla quale è possibile ripercorrere
a ritroso il percorso evolutivo della Natura (prakriti) per conseguire la consapevolezza
della totale alterità dello Spirito (purusha). Si tratta pertanto di una
visione "dualistica" del Reale che, pur differenziandosi in modo abbastanza
netto dagli altri darshana brahmanici (primo fra tutti, il Vedânta) riveste
in ogni caso un'importanza particolare, in quanto fornisce uno strumento di analisi
della realtà fisica e psichica che è fatto proprio anche da altri
sistemi. Ne costituiscono un esempio rappresentativo le scuole shaiva di solido
impianto non-dualistico, la cui analisi della Realtà si articola in trentasei
categorie, delle quali le ultime venticinque sono appunto quelle del Sâmkhya. I
princìpi fondamentali del Sâmkhya sono stati esposti nelle Sâmkhya-kârikâ
(Strofe del Sâmkhya) di Îshvarakrishna (IV-V sec. d.C.), il quale
ha raccolto ed esposto in modo sistematico una tradizione di pensiero molto antica,
che si vuole fondata dal mitico saggio Kapila, da lui trasmessa ad Asuri e da
questi a Pañcashikha. Quello che il breve testo di Îshvarakrishna
- commentato da illustri pensatori quali Gaudapâda (VII secolo?) e Vâcaspatimishra
(IX secolo) - ci presenta è un sistema dualistico che ammette l'esistenza
di due entità ugualmente eterne: le entità spirituali (purusha),
che sono infinite, pure, intelligenti, inattive e caratterizzate da un'essenziale
semplicità, e la Natura (prakriti, detta anche pradhâna, "il
fondamento", avyakta, "il non-evoluto" e, in altri contesti, mâyâ,
shakti, vâc, la Madre celeste, la Dea), che è al contrario unica,
attiva e complessa. La Natura è costituita da tre guna o "qualità"
(caratteristiche intrinseche, componenti, costituenti o modi di essere): il sattva,
illuminante e leggero, il rajas, mobile e stimolante, e il tamas, ostruttivo e
greve; la tensione che si stabilisce fra questi componenti instaura un equilibrio
che cessa nel momento in cui lo spirito, quasi sedotto dalla Natura, viene come
avvolto in un "corpo sottile" (linga-sharîra) e coinvolto dalla
psiche (che appartiene alla Natura) fino a considerarsi responsabile delle azioni
alle quali in realtà rimane estraneo, come uno spettatore nei confronti
di una danzatrice; nel medesimo tempo, la psiche (buddhi) tende ad attribuirsi
un'intelligenza che non le è propria, in quanto appartiene solo allo spirito.
Si costituisce così un essere "animato", un jîva, che entra
nel ciclo della trasmigrazione determinato e condizionato dall'umano agire. Tocca
quindi all'uomo far sì che lo spirito riacquisti la consapevolezza della
propria essenziale alterità rispetto al mondo psichico e, con essa, ritrovi
la sua originaria libertà. La psiche (buddhi, detta anche mahat[tattva],
"il grande [principio]") costituisce - sia sul piano cosmico, sia su
quello individuale - il primo momento dell'evoluzione della prakriti. Nel passaggio
successivo, essa dà luogo all'ahamkâra o senso dell'io, dal quale,
quando prevale il sattva, si originano la mente (manas), che riceve e coordina
i messaggi dei sensi, e i cinque organi sensoriali di percezione (udito, tatto,
vista, gusto e olfatto); col predominio del rajas si producono i cinque organi
di azione (parola, mani, piedi, organi di escrezione e organi di riproduzione);
infine, con la preponderanza del tamas traggono origine i cinque tanmâtra
o "elementi sottili": sonorità, tangibilità, visibilità,
gustabilità e odorabilità, che corrispondono agli oggetti dei cinque
sensi (suono, tatto, luce-forma, sapore e odore), costituendone in qualche modo
il "presupposto" invisibile; da questi "elementi sottili",
attraverso un successivo processo - per così dire - di condensazione, si
generano i cinque "elementi grossolani" (bhûta o mahâ-bhûta)
costitutivi del mondo materiale, che sono lo spazio (âkâsha), l'aria
(vâyu), il fuoco (agni), l'acqua (âpas) e la terra (prithivî).
A questo punto è interessante scendere più nel dettaglio, e precisamente:
il tanmâtra della sonorità produce l'atomo di spazio (lo spazio,
nella sua essenza, non è che una vibrazione sonora), quello della tangibilità
insieme con quello della sonorità produce l'atomo di aria (l'aria-vento
si "sente", cioè ha una "voce" e si percepisce anche
con la pelle), quello della visibilità con sonorità e tangibilità
produce l'atomo di fuoco (il fuoco ha un suono, si percepisce col tatto e si vede),
quello della gustabilità, unito coi precedenti tanmâtra, dà
luogo all'atomo di acqua (l'acqua ha un suono, è percepibile al tatto,
si vede e si può anche gustare) e infine quello dell'odorabilità,
con l'aggiunta dei quattro precedenti elementi sottili, produce l'atomo di terra
(la terra, oltre ad avere tutte le caratteristiche precedentemente descritte,
è "odorosa"). Da questo deriva che ai cinque elementi, le cui
caratteristiche intrinseche sono sonorità, tangibilità, visibilità,
gustabilità e odorabilità - in numero crescente man mano che si
procede da quello più "sottile" (lo spazio) fino a quello più
"grossolano" (la terra) - corrispondono i cinque organi della percezione
sensoriale (udito/orecchio, tatto/pelle, vista/occhio, gusto/lingua e odorato/naso).
L'intera visione cosmologica del Sâmkhya si sviluppa pertanto in 24 categorie
o princìpi della realtà (tattva), ai quali si devono aggiungere
le entità spirituali (purusha) come venticinquesimo. La Natura pertanto
è complessa e priva di coscienza e proprio sulla base del fatto che essa,
a causa dell'ignoranza, appaia "come se fosse cosciente, si postula la necessità
di un principio che presieda la Natura" (commento di Gaudapâda a Sâmkhya-kârikâ
6; cfr. trad. di Corrado Pensa, Boringhieri, Torino 1960, p. 38) e - aggiungerei
- nel medesimo tempo la trascenda, cioè lo Spirito. Il perdurare del
legame col ciclo samsarico è quindi causato, secondo il Sâmkhya -
e non diversamente da quanto sostengono le principali visioni brahmaniche della
Realtà -, dall'ignoranza, che consiste nell'attribuire erroneamente le
qualità dello Spirito (purusha), che è l'unico principio cosciente,
alla psiche, che appartiene alla Natura ed è quindi incosciente, e l'attività
della psiche allo Spirito, che invece ne è soltanto lo spettatore cosciente
e inattivo; la salvezza, o liberazione (moksha, mukti) consiste proprio nel superamento
dell'ignoranza, grazie al quale "come la danzatrice smette di danzare dopo
essersi mostrata al pubblico, così la natura cessa la sua attività
essendosi manifestata allo Spirito" (Sâmkhya-kârikâ 59);
la Natura, infatti, si unisce allo spirito proprio per conseguire il fine dell'esistenza,
l'isolamento che coincide con la liberazione (Sâmkhya-kârikâ
21). Un simile congiungimento, sempre secondo il commento di Gaudapâda,
è paragonabile a quello di uno zoppo con un cieco; la parabola è
la seguente: uno zoppo e un cieco erano in viaggio quando, in una foresta, la
carovana subì un violento assalto da parte dei briganti. I due furono abbandonati
dai compagni di viaggio e, dopo aver a lungo vagato senza una meta, accadde che
s'incontrarono. Provando fiducia l'uno nell'altro, decisero di unirsi, affinché,
così uniti, potessero insieme camminare e vedere. Il cieco sollevò
lo zoppo sulle spalle e procedette secondo la strada che questi gli andava indicando.
Ora lo Spirito, al pari dello zoppo, privo com'è della potenza di azione,
è però dotato della potenza della vista, mentre la Natura, al contrario,
capace di agire, ma incapace di vedere, è paragonabile al cieco; e così,
come i due uomini si separano non appena abbiano raggiunto il luogo desiderato,
così lo Spirito, quando l'uomo abbia conseguito il suo fine, ritrova il
proprio perfetto isolamento (cfr. traduzione di Corrado Pensa, cit., pp. 65 e
seg.). Lo schema dell'evoluzione che qui è stato brevemente descritto,
infatti, deve essere considerato in modo ciclico. Esso, cioè, può
e deve essere percorso anche a ritroso (e a tal fine lo Yoga viene in soccorso
con precise tecniche di controllo fisico e psichico), dalla molteplicità
all'unità originaria della prakriti, affinché, eliminata l'ignoranza,
la psiche possa finalmente riconoscersi come parte della Natura, consentendo così
allo spirito di riconquistare quello stato di perfetta purezza, immobilità
e libertà che in nessun modo potrà essere modificato. III. La
visione del Sâmkhya-darshana brahmanico (sintetizzata nello schema allegato)
ci consente pertanto di affermare con molta forza che l'uomo appartiene alla natura,
la quale è trascesa soltanto dallo Spirito; e vi appartiene in modo totale,
così da comprendere anche tutto l'insieme delle sue facoltà psichiche,
che non sono "materiali" o "grossolane" come il suo corpo
fisico, ma sono costituite comunque, per così dire, da una materia rarefatta
e "sottile" al punto di non essere percepibile dai sensi. Consegue da
una simile visione che tutte le forme di vita, specialmente quelle animali e vegetali,
determinano l'equilibrio di quell'insieme meraviglioso che è la vita nel
mondo e che il rispetto di tutte le forme di vita è nel medesimo tempo
il rispetto della nostra stessa vita, essendo l'uomo partecipe di quel continuo
fluire delle esistenze, che già le Upanishad definirono come un'immensa
fiumana, chiamandola samsâra, una parola significa "scorrere insieme". IV.
Ed è proprio da questa situazione esistenziale che sorge il problema, almeno
per quanto concerne le religioni dell'India, che sulla base dei diversi darshana
costruiscono ciascuna la propria visione del mondo, ma che, nel medesimo tempo,
hanno in comune un tratto di fondo, che ha indotto la studiosa francese Madeleine
Biardeau a intitolare Un'antropologia del desiderio un importante capitolo del
suo volumetto dedicato all'induismo (cfr. L'induismo. Antropologia di una civiltà,
Mondadori, Milano 1985, pp. 93 e segg.). Il riferimento testuale più pregnante
è un passo di quel grande affresco della cultura hindû che è
il Mahâbhârata, più precisamente del suo XII libro, di carattere
spiccatamente normativo; in tale passo (adhyâya 167, shloka 29 e segg.)
uno dei cinque fratelli Pândava, il veemente Bhîma, intesse un interessante
elogio del kâma, il "desiderio", individuando in esso l'unico
motore di tutto l'agire umano, non escluse quelle azioni per eccellenza che sono
gli atti sacrificali, compiuti anch'essi in vista di un frutto che si vuole ottenere.
La stessa rivelazione vedica, del resto, lega indissolubilmente i riti sacrificali
ai desideri umani quando afferma che "colui che desidera il cielo deve celebrare
sacrifici" (yajñakâmo yajeta). Non solo, ma il desiderio invade
anche la sfera stessa del non agire, se è vero che l'asceta, colui che
ha rinunciato a tutti i desideri ed è teso soltanto alla liberazione dal
ciclo samsarico, è anche designato con l'espressione mumukshu, una parola
che significa "colui che desidera il moksha (la "liberazione",
appunto)". Sia l'agire (pravritti), sia il non-agire (nivritti) sono dunque
connessi con il desiderio, ma in modo diverso, perché quello del rinunciante
appare, per così dire, come l'unico desiderio "legittimo", almeno
per quanto concerne il conseguimento del fine ultimo della vita. La vita nel
mondo, infatti, e soprattutto a partire dal Buddha, la cui analisi dell'esperienza
umana giunge a una conclusione che coincide con quella che Patañjali esprime
nei suoi Yoga-sûtra (duhkham eva sarvam vivekinah, YS II, 15), è
concepita come un'esperienza "dolorosa", non solo perché l'azione,
come ebbero a sostenere i Mîmâmsaka, è in se stessa dolorosa,
poiché comporta fatica e sofferenza, ma anche perché proprio le
azioni dell'uomo sono la causa del suo perenne ritorno nella vita, e la vita stessa
è "dolore", in quanto comporta una continua insoddisfazione,
che determina uno stato di "disagio" (duhkha, appunto). Illustra bene
questa situazione il re Bhoja nel suo commento al sûtra citato degli Yoga-sûtra:
"Il dolore inerente al divenire procede dal fatto che la fruizione degli
oggetti non fa che accrescere progressivamente la bramosia, e la bramosia insoddisfatta
è fonte di dolore, cui si aggiunge nuovo dolore, quando se ne constata
l'inevitabilità" (trad. di Paolo Magnone in Patañjali, Aforismi
dello yoga [Yogasûtra], a cura di
, II edizione, Promolibri, Torino
1999, p. 73). E' naturale, quindi, che l'uomo aspiri a por fine a questa situazione
di disagio e che la sua aspirazione si configuri come tensione verso la "liberazione"
(moksha, mukti), verso il conseguimento di uno stato indefinibile, ma totalmente
altro rispetto alle esperienze della vita, uno stato dal quale non c'è
ritorno. V. Nella sua ricerca di uno strumento per realizzare questo fine,
il pensiero brahmanico ha individuato molte vie, ciascuna delle quali comporta
- o almeno non esclude - una componente essenziale, che è quella della
"conoscenza" (jñâna, vijñâna): una componente
che è considerata l'unico strumento di liberazione nella visione più
o meno rigorosamente non-dualista (advaita) che va sotto il nome di Vedânta
e che è diventata dominante nel pensiero indiano, pur nelle sue molteplici
sfumature, almeno a partire dalla Bhagavad-gîtâ. Occorre dire subito
che non si tratta di un sapere libresco, ma di correttezza di visione, di consapevolezza,
di esperienza interiore della verità: un'esperienza che, in quanto tale,
diventa fattore insostituibile di liberazione: in altre parole, la "conoscenza"
conduce alla salvezza. Il suo contrario è l'ignoranza (avidyâ), che,
come abbiamo visto, rappresenta - e non solo per il Sâmkhya-darshana - la
causa del permanere nel samsâra. Naturalmente, anche l'ignoranza non è
da intendersi come mancanza di nozioni, ma come negazione della dimensione misteriosa
dell'essere, come autoprivazione della consapevolezza del vero. Ignorante non
è, in altre parole, chi non sa, ma chi non ha capito o non vuole capire;
ignorante è chi "dorme", mentre il sapiente è "desto",
è colui che ha sperimentato il risveglio ed è divenuto un buddha,
facendo un'esperienza che, nel contesto cristiano, non sarei capace di chiamare
altrimenti che di "resurrezione"; il sapiente è disponibile ad
accogliere il mistero e la sua sapienza si può anche chiamare fede, se
è vero che la fede comporta la disponibilità a considerare ciò
che non si vede né si può descrivere come una realtà più
vera di quella che quotidianamente si è soliti sperimentare. La "conoscenza"
che libera e salva è quella descritta nella Bhagavad-gîtâ (7,
2): jñânam
te 'ham savijñânam idam vakshyâmy asheshatah | yaj jñâtvâ
neha bhûyo 'nyaj jñâtavyam avashishyate || Questa
"conoscenza unita a consapevolezza, appresa la quale nulla più resta
da apprendere quaggiù" consente dunque all'uomo di conseguire il suo
fine. VI. I miei lunghi studi sulla ricerca spirituale dell'India mi hanno
condotto alla convinzione che il fine ultimo dell'uomo si può indicare
con molte parole, la più efficace delle quali è forse la parola
"pace", in sanscrito: shânti. Nell'esperienza religiosa descritta
non solo nelle Upanishad, ove la parola shânti figura ripetuta tre volte
e preceduta dalla mistica sillaba OM, evocatrice di tutto il Reale, nella nota
invocazione che conclude molti passi (cfr., per esempio, Taittirîya-upanishad
I.1.1 e Katha-upanishad II.6), ma anche nella Bhagavad-gîtâ, la parola
"pace" indica senza dubbio il sommo bene. Mi si consenta di riferirmi
qui a un testo da me redatto come Introduzione al libro di Ravîndranâth
Thâkur intitolato La casa della pace (Bollati Boringhieri, Torino 1999,
pp. XXII e segg.). Vi osservavo che la parola shânti indica un modo di
essere, uno stato interiore di profonda quiete della mente che corrisponde all'esperienza
della verità. In questo senso la pace è liberazione e shânti
e mukti sono in fondo la stessa cosa; la salvezza, il moksha, il nirvâna
si compiono quando l'uomo diventa finalmente libero non tanto da un ipotetico
tiranno di questo mondo, quanto piuttosto da quell'unico tiranno che è
il suo io; egli diventa libero quando ha superato la logica perversa degli opposti
(bello/brutto, buono/cattivo, prezioso/vile, e così via) e, soprattutto
di quella coppia di opposti che consiste in attrazione e repulsione (râga
e dvesha); essa determina il suo agire ed è la radice di ogni male, in
quanto induce allo "smarrimento" (moha), a una visione errata della
realtà. L'uomo è attratto dalle cose e le ama o ne è disgustato
e le odia: nell'uno e nell'altro caso sorge in lui il desiderio, e il desiderio
è causa di legame; è pertanto necessario conseguire la capacità
di accostarsi a tutti gli oggetti della nostra esperienza sensoriale con equanimità,
senza fare alcuna differenza, per usare una metafora classica, fra un filo d'erba
e un pezzo d'oro. La pace si può esprimere anche in un altro modo e
precisamente come recupero dell'originaria "innocenza" assai più
che come soppressione, più o meno coatta, del desiderio di sopraffazione.
Ecco il senso profondo della cosiddetta non-violenza, della quale il Mahâtmâ
Gândhî fece una bandiera. Occorre "essere in pace" per poter
operare in modo pacifico. La pace infatti è un dono, il dono che continuamente
rammentano, dalle pareti dei templi hindû, le innumerevoli iconografie divine
raffigurate nel gesto detto abhaya-mudrâ, cioè con la mano destra
alzata all'altezza della spalla e la palma rivolta in avanti, un gesto che indica
il "dono dell'assenza di paura" (abhaya-dâna). L'uomo è
capace di questo dono "divino" solo se ha recuperato quell'originaria
"innocenza" di cui ho appena detto; egli è capace di questo dono
se la sua presenza non incute timore, come non l'incuterebbe la presenza di un
bimbo in fasce. Il "Non temete" dei Vangeli ha pertanto il medesimo
significato dell'altra espressione: "La pace sia con voi", ma proprio
per questo la "pace" non si addice all'uomo che vive nel mondo, nella
vana ricerca di un compromesso fra la "pace" e l'agire; essa, al contrario,
perfettamente si addice all'asceta, che la gente comune considera, in India, come
un trapassato, come una persona il cui rito funebre è già stato
celebrato. La Shvetâshvatara-upanishad (IV.11 e 14) afferma che si giunge
veramente alla pace solo quando si conosce Dio e l'idea è enunciata con
precisione ancor maggiore nella Bhagavad-gîtâ, che lega indissolubilmente
la pace alla felicità (2.66) e alla conoscenza (4.39) e afferma che solo
chi rinuncia a tutti i desideri giunge infine alla pace (2.71); questo comporta,
ovviamente, una disciplina del corpo e della mente, ed è per questo che
la pace è presentata come una conquista del vero adepto dello yoga (5.12)
in quanto capace di consapevolezza (5.29) e di controllo mentale (6.15): "Soggiogando
costantemente se stesso e controllando la propria mente, lo yogin attinge
infine quella pace che ha in me il suo compimento e che rappresenta il momento
più alto del nirvâãa". (Traduzione
dello scrivente in Bhagavad-gîtâ (Il canto del glorioso Signore).
Edizione italiana a cura di S. Piano, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 157). Sono
parole pronunciate da Krishna, il Bhagavat, il supremo Signore dell'universo,
e che vengono riprese in questo modo alla fine del suo insegnamento (18.62): "In
lui tu cerca rifugio con tutto il tuo essere, o discendente di Bharata; per
sua grazia attingerai la perenne, eccelsa dimora, che coincide con la suprema
pace". (Ibidem,
p. 283). Ho detto
più sopra che shânti e moksha sono la stessa cosa e ne troviamo nei
versetti immortali della Gîtâ la più evidente conferma. Non
solo, la pace è anche pienezza dell'essere (sat), coscienza del Vero (cit)
e beatitudine suprema (ânanda): tre elementi che costituiscono la più
nota formulazione vedântica di una possibile rappresentazione del mistero
divino; la pace è, in altre parole ancora, "esperienza" dell'indicibile,
di una Realtà in cui il cantore, il cantato e il canto sono la stessa cosa. VII.
Prima di giungere alla conclusione del mio discorso vorrei ancora riferire di
una mia ulteriore ricerca. Mi sono domandato quale potesse essere l'opposto della
parola "pace" e, in un primo tempo, non l'ho trovato. Non l'ho trovato
non tanto perché i dizionari dei sinonimi e dei contrari non facciano il
loro dovere, quanto piuttosto perché non mi sono trovato d'accordo con
le soluzioni proposte, prima fra tutte la parola "guerra" con tutti
i suoi possibili sinonimi. Sono infatti convinto che l'errore di fondo che commettono
molti di coloro che parlano di pace consista nel considerarla una sorta di "assenza
di guerra". Anche in questo caso il pensiero brahmanico ci può essere
di aiuto. Occorre avviare la nostra analisi prendendo in esame tutta una serie
di opposti, a cominciare da quelli così autorevolmente enunciati nella
celeberrima preghiera della Brihadâranyaka-upanishad (I.3.28): si possono
così individuare una serie di vocaboli - e di concetti correlati - che
comprendono, da una parte, quasi che ultimamamente non fossero altro che sinonimi,
non solo sat (l'essere), jyotis (la luce), amrita (l'immortalità), ma anche
rita o satya (la verità), dharma (l'ordine e la norma intrinseca delle
cose), nirvâna, moksha o mukti (la liberazione), bodhi, jñâna
e vijñâna (il risveglio, la conoscenza e la consapevolezza), bhûman
o ananta (l'infinito), abhaya (l'assenza di paura) - insomma, tutto quanto siamo
soliti chiamare il "bene", e, dall'altra, asat (il non-essere), tamas
(la tenebra), mrityu (la morte), ma anche anrita (il falso), adharma (il disordine),
samsâra (il ciclo del rimorire), avidyâ (l'ignoranza), anta (il confine),
bhaya (la paura) - insomma, tutto quanto siamo soliti chiamare il "male". Se
la nostra riflessione è corretta, e se è vero che l'uomo, da sempre
e in ogni luogo, aspira a quel fine che è la felicità, la pace è
pertanto sommo bene, felicità (sukha) e quiete / assenza di paura; il suo
contrario non è la guerra, ma il male, l'ignoranza e la paura. Se poi vogliamo
scendere per un attimo dalla sfera della metafisica a quella dell'esperienza terrena,
possiamo dire che, se è vero che chi non ha paura non fa paura, proprio
su questo punto si gioca la pace terrena fra le nazioni. Ma la felicità
vera, come la vera pace, non è di questo mondo. Ne troviamo conferma in
quel bellissimo passo della Chândogya-upanishad (VII.23.1), ove si afferma: In
verità, l'infinito è la felicità. Non c'è felicità
nel finito, solo l'infinito è felicità. Ma bisogna voler conoscere
l'infinito
Là dove null'altro si vede, null'altro si ode, null'altro
si conosce, quello è l'infinito. Là dove si vede qualche altra
cosa, si ode qualche altra cosa, si conosce qualche altra cosa, quello
è il finito. Quel che è infinito è immortale, mentre
ciò che è finito è mortale. (cfr.
Saggezza hindû, a cura di Pinuccia Caracchi e Stefano Piano, Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 200). Ed
è stata per me - e spero che lo sia anche per chi mi ascolta - una bella
e interessante esperienza rileggere, in questa luce, i versi che il nostro grande
poeta Giacomo Leopardi ha dedicato proprio all'infinito: Sempre caro mi fu
quest'ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell'ultimo orizzonte
il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là
da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi
fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra
queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando:
e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon
di lei. Così tra questa Immensità s'annega il pensier mio: E
il naufragar m'è dolce in questo mare. In
questa lirica c'è tutta la "voce" (vâc) del nostro piccolo
confine, che non è affatto privo di una sua piacevolezza e che può
suscitare il desiderio, a tal punto che il primo incontro con una dimensione senza
confini può incutere paura, ma ci sono anche i "silenzi" sovrumani
(ashabda-bráhman) e la "quiete" profondissima (shânti)
che l'uomo può concepire col pensiero. C'è, infine, quell'annegare
del pensiero nell'immensità e quel naufragare che è "dolce"
nell'oceano senza confini del mistero come pura gioia. Era forse giunta all'orecchio
del nostro poeta, che compose a Recanati questa lirica nel 1819, una qualche eco
del lavoro di traduzione, da un originale persiano, delle Upanishad da parte di
Anquétil Duperron? VIII. L'arte, il linguaggio poetico, che è
linguaggio creativo, e la bellezza sono spesso più vicini al Vero di quanto
non lo sia lo stesso bene. In altre parole, come sembra volerci dire con le sue
liriche mistiche la poetessa hindî Mahâdevî Varmâ, c'è
un moksha del poeta. Si pensi allo spirito che Tagore volle infondere alla sua
scuola internazionale di Shântiniketan e che si può sintetizzare
nel modo seguente: "Attraverso lo stretto contatto con la natura, contemplando
la sua armonia e la sua bellezza, l'uomo può pervenire all'idea dell'unità
ultima di tutte le cose e trovare così il pieno appagamento e la pace;
in questa visione, infatti, la vita e la morte appaiono, non diversamente da luce
e ombra, come due aspetti di una stessa realtà, che l'uomo percepisce come
un mistero insondabile. La chiave di questo mistero è l'amore, che è
capace, esso soltanto, di rivelare la misteriosa relazione fra finito e infinito". (Cfr.
Introduzione dello scrivente a La casa della pace, cit., p. XIX). Il poeta
dell'India ci dice dunque che la pace non può recare conforto senza l'Amore
e questa affermazione mi fa ritornare con la memoria le parole dell'apostolo Paolo
(Lettera agli Efesini 2, 13-16): "
13 Ora però in Cristo Gesù voi, che un tempo eravate lontani, siete
divenuti vicini in virtù del sangue di Cristo. 14 Egli infatti è
la nostra pace, colui che ha fatto di due una cosa sola, abbattendo il muro di
separazione che era in mezzo a noi, cioè l'inimicizia, 15
allo scopo
di creare in se stesso i due in un unico nuovo uomo, facendo pace, 16 e di riconciliarli
ambedue in Dio in un solo corpo per mezzo della croce, uccidendo l'inimicizia
in se stesso
". Per
l'apostolo Paolo, dunque, la pace è Gesù Cristo, il che equivale
a dire che la pace è Dio, è l'Infinito, è il Bene; la pace,
per usare una terminologia cristiana, è l'Amore. Concludendo, quindi, le
tre parole che costituiscono il titolo di questa mia comunicazione, dal punto
di vista del pensiero brahmanico, ma anche in una prospettiva inter-religiosa,
non sono in fondo che sinonimi, e ci trasmettono il messaggio profondo che il
"segreto" (la Bhagavad-gîtâ direbbe: guhya) consiste soltanto
nell'Amore.
PRAKRITI
(PRADHÂNA, AVYAKTA) |
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5 organidi azione (consentono
di:) | 5
"elementi sottili" | UDITO | PARLARE
| SONORITA'
| TATTO | AFFERRARE | TANGIBILITA'
| VISTA | CAMMINARE | VISIBILITA'
| GUSTO | EVACUARE | GUSTABILITA'
| OLFATTO | RIPRODURSI | ODORABILITA' | | | | | | 5
"elementi grossolani"
| | [tanmâtra]
| | | (sonorità
->) |
SPAZIO
| | (+
tangibilità ->) | ARIA
| | (+
visibilità ->) | FUOCO
| | (+
gustabilità ->) | ACQUA
| | (+
odorabilità ->) | TERRA | | | |
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