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"Conoscenza, pace, felicità: il messaggio dell'India"

Prof. Stefano Piano

I. Lunedì 4 agosto 2003 il quotidiano "La Stampa" di Torino ha pubblicato l'annuncio che il prossimo Novembre la Chiesa Cattolica darà il suo assenso alla produzione di cibi transgenici e alla clonazione su animali e piante, ritenuto addirittura "doveroso", sulla base dell'unanime giudizio degli scienziati, che hanno proclamato univocamente che gli OGM non costituiscono un pericolo per l'uomo. Come se la scienza "galileana" non si basasse sull'osservazione della realtà fenomenica, ma fosse al contrario capace di prevedere il futuro circa le conseguenze dell'uso di tali alimenti da parte dell'uomo e in generale nel ciclo vitale. Il tutto con il plauso del solito cardinale "televisivo" Ersilio Tonini, basato sul vecchio assioma che "la terra è al servizio dell'uomo".
Anche se il fatto, e insieme il dibattito - a volte anche polemico - che ne seguì sui mezzi di comunicazione di massa, non mancò di attirare la mia attenzione, suscitando anche una serie breve, ma significativa di riflessioni e di piccole indagini che hanno caratterizzato gli inizi della mia abituale feria d'agosto, non intendo qui entrare nel vivo della questione - che peraltro esula, almeno in parte, dall'oggetto abituale dei miei studi - per non annoiare chi mi ascolta con discorsi sull'uso che si fa, nei paesi "ricchi", di certi prodotti vegetali e sull'utopia - a mio avviso fondata su una vera menzogna - secondo la quale la coltivazione e il consumo dei medesimi prodotti, ma geneticamente modificati, risolverebbe l'immenso problema della fame nel nostro pianeta. Consapevole e convinto del fatto che "i poveri li avremo sempre con noi" e che - se solo lo volessimo - potremmo forse e finalmente, e semplicemente, cercare di cominciare ad "amarli", preferisco andare con la memoria al testo della lettera scritta e inviata dal capo indiano Scattle al "grande capo bianco" di Washington, l'allora Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, il quale aveva proposto di acquistare una parte del territorio indiano e, in cambio, istituire una riserva per i pellirosse. Vi si legge, a proposito del "possesso" della terra, che tutta la terra è sacra, perché intrisa del sangue delle passate generazioni e che i pellirosse sono "selvaggi" e quindi non possono capire il modo di pensare dell'uomo bianco, ma sanno "almeno questo: non è la terra che appartiene all'uomo, ma è l'uomo che appartiene alla terra… Non è l'uomo che ha tessuto la trama della vita. Egli ne è soltanto un filo…".
II. Il monito contenuto in questo importante documento politico e culturale trova una conferma nella solida e articolata argomentazione che caratterizza i diversi sistemi di pensiero dell'India brahmanica e, in particolare, quello fra essi che esprime, per così dire, il punto di vista (darshana) "cosmologico"; il suo nome, Sâmkhya-darshana, allude al fatto che si tratta in un punto di vista espresso attraverso l'enumerazione (in sanscrito: samkhyâ) delle "categorie della realtà" (tattva). Non diversamente dagli altri darshana, anche il Sâmkhya è uno dei due elementi costitutivi di una coppia: si completa infatti con lo Yoga-darshana o yoga-shâstra, ovvero con quella dottrina che insegna la pratica di una disciplina del corpo e della mente grazie alla quale è possibile ripercorrere a ritroso il percorso evolutivo della Natura (prakriti) per conseguire la consapevolezza della totale alterità dello Spirito (purusha). Si tratta pertanto di una visione "dualistica" del Reale che, pur differenziandosi in modo abbastanza netto dagli altri darshana brahmanici (primo fra tutti, il Vedânta) riveste in ogni caso un'importanza particolare, in quanto fornisce uno strumento di analisi della realtà fisica e psichica che è fatto proprio anche da altri sistemi. Ne costituiscono un esempio rappresentativo le scuole shaiva di solido impianto non-dualistico, la cui analisi della Realtà si articola in trentasei categorie, delle quali le ultime venticinque sono appunto quelle del Sâmkhya.
I princìpi fondamentali del Sâmkhya sono stati esposti nelle Sâmkhya-kârikâ (Strofe del Sâmkhya) di Îshvarakrishna (IV-V sec. d.C.), il quale ha raccolto ed esposto in modo sistematico una tradizione di pensiero molto antica, che si vuole fondata dal mitico saggio Kapila, da lui trasmessa ad Asuri e da questi a Pañcashikha. Quello che il breve testo di Îshvarakrishna - commentato da illustri pensatori quali Gaudapâda (VII secolo?) e Vâcaspatimishra (IX secolo) - ci presenta è un sistema dualistico che ammette l'esistenza di due entità ugualmente eterne: le entità spirituali (purusha), che sono infinite, pure, intelligenti, inattive e caratterizzate da un'essenziale semplicità, e la Natura (prakriti, detta anche pradhâna, "il fondamento", avyakta, "il non-evoluto" e, in altri contesti, mâyâ, shakti, vâc, la Madre celeste, la Dea), che è al contrario unica, attiva e complessa. La Natura è costituita da tre guna o "qualità" (caratteristiche intrinseche, componenti, costituenti o modi di essere): il sattva, illuminante e leggero, il rajas, mobile e stimolante, e il tamas, ostruttivo e greve; la tensione che si stabilisce fra questi componenti instaura un equilibrio che cessa nel momento in cui lo spirito, quasi sedotto dalla Natura, viene come avvolto in un "corpo sottile" (linga-sharîra) e coinvolto dalla psiche (che appartiene alla Natura) fino a considerarsi responsabile delle azioni alle quali in realtà rimane estraneo, come uno spettatore nei confronti di una danzatrice; nel medesimo tempo, la psiche (buddhi) tende ad attribuirsi un'intelligenza che non le è propria, in quanto appartiene solo allo spirito. Si costituisce così un essere "animato", un jîva, che entra nel ciclo della trasmigrazione determinato e condizionato dall'umano agire. Tocca quindi all'uomo far sì che lo spirito riacquisti la consapevolezza della propria essenziale alterità rispetto al mondo psichico e, con essa, ritrovi la sua originaria libertà.
La psiche (buddhi, detta anche mahat[tattva], "il grande [principio]") costituisce - sia sul piano cosmico, sia su quello individuale - il primo momento dell'evoluzione della prakriti. Nel passaggio successivo, essa dà luogo all'ahamkâra o senso dell'io, dal quale, quando prevale il sattva, si originano la mente (manas), che riceve e coordina i messaggi dei sensi, e i cinque organi sensoriali di percezione (udito, tatto, vista, gusto e olfatto); col predominio del rajas si producono i cinque organi di azione (parola, mani, piedi, organi di escrezione e organi di riproduzione); infine, con la preponderanza del tamas traggono origine i cinque tanmâtra o "elementi sottili": sonorità, tangibilità, visibilità, gustabilità e odorabilità, che corrispondono agli oggetti dei cinque sensi (suono, tatto, luce-forma, sapore e odore), costituendone in qualche modo il "presupposto" invisibile; da questi "elementi sottili", attraverso un successivo processo - per così dire - di condensazione, si generano i cinque "elementi grossolani" (bhûta o mahâ-bhûta) costitutivi del mondo materiale, che sono lo spazio (âkâsha), l'aria (vâyu), il fuoco (agni), l'acqua (âpas) e la terra (prithivî). A questo punto è interessante scendere più nel dettaglio, e precisamente: il tanmâtra della sonorità produce l'atomo di spazio (lo spazio, nella sua essenza, non è che una vibrazione sonora), quello della tangibilità insieme con quello della sonorità produce l'atomo di aria (l'aria-vento si "sente", cioè ha una "voce" e si percepisce anche con la pelle), quello della visibilità con sonorità e tangibilità produce l'atomo di fuoco (il fuoco ha un suono, si percepisce col tatto e si vede), quello della gustabilità, unito coi precedenti tanmâtra, dà luogo all'atomo di acqua (l'acqua ha un suono, è percepibile al tatto, si vede e si può anche gustare) e infine quello dell'odorabilità, con l'aggiunta dei quattro precedenti elementi sottili, produce l'atomo di terra (la terra, oltre ad avere tutte le caratteristiche precedentemente descritte, è "odorosa"). Da questo deriva che ai cinque elementi, le cui caratteristiche intrinseche sono sonorità, tangibilità, visibilità, gustabilità e odorabilità - in numero crescente man mano che si procede da quello più "sottile" (lo spazio) fino a quello più "grossolano" (la terra) - corrispondono i cinque organi della percezione sensoriale (udito/orecchio, tatto/pelle, vista/occhio, gusto/lingua e odorato/naso). L'intera visione cosmologica del Sâmkhya si sviluppa pertanto in 24 categorie o princìpi della realtà (tattva), ai quali si devono aggiungere le entità spirituali (purusha) come venticinquesimo. La Natura pertanto è complessa e priva di coscienza e proprio sulla base del fatto che essa, a causa dell'ignoranza, appaia "come se fosse cosciente, si postula la necessità di un principio che presieda la Natura" (commento di Gaudapâda a Sâmkhya-kârikâ 6; cfr. trad. di Corrado Pensa, Boringhieri, Torino 1960, p. 38) e - aggiungerei - nel medesimo tempo la trascenda, cioè lo Spirito.
Il perdurare del legame col ciclo samsarico è quindi causato, secondo il Sâmkhya - e non diversamente da quanto sostengono le principali visioni brahmaniche della Realtà -, dall'ignoranza, che consiste nell'attribuire erroneamente le qualità dello Spirito (purusha), che è l'unico principio cosciente, alla psiche, che appartiene alla Natura ed è quindi incosciente, e l'attività della psiche allo Spirito, che invece ne è soltanto lo spettatore cosciente e inattivo; la salvezza, o liberazione (moksha, mukti) consiste proprio nel superamento dell'ignoranza, grazie al quale "come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata al pubblico, così la natura cessa la sua attività essendosi manifestata allo Spirito" (Sâmkhya-kârikâ 59); la Natura, infatti, si unisce allo spirito proprio per conseguire il fine dell'esistenza, l'isolamento che coincide con la liberazione (Sâmkhya-kârikâ 21). Un simile congiungimento, sempre secondo il commento di Gaudapâda, è paragonabile a quello di uno zoppo con un cieco; la parabola è la seguente: uno zoppo e un cieco erano in viaggio quando, in una foresta, la carovana subì un violento assalto da parte dei briganti. I due furono abbandonati dai compagni di viaggio e, dopo aver a lungo vagato senza una meta, accadde che s'incontrarono. Provando fiducia l'uno nell'altro, decisero di unirsi, affinché, così uniti, potessero insieme camminare e vedere. Il cieco sollevò lo zoppo sulle spalle e procedette secondo la strada che questi gli andava indicando. Ora lo Spirito, al pari dello zoppo, privo com'è della potenza di azione, è però dotato della potenza della vista, mentre la Natura, al contrario, capace di agire, ma incapace di vedere, è paragonabile al cieco; e così, come i due uomini si separano non appena abbiano raggiunto il luogo desiderato, così lo Spirito, quando l'uomo abbia conseguito il suo fine, ritrova il proprio perfetto isolamento (cfr. traduzione di Corrado Pensa, cit., pp. 65 e seg.).
Lo schema dell'evoluzione che qui è stato brevemente descritto, infatti, deve essere considerato in modo ciclico. Esso, cioè, può e deve essere percorso anche a ritroso (e a tal fine lo Yoga viene in soccorso con precise tecniche di controllo fisico e psichico), dalla molteplicità all'unità originaria della prakriti, affinché, eliminata l'ignoranza, la psiche possa finalmente riconoscersi come parte della Natura, consentendo così allo spirito di riconquistare quello stato di perfetta purezza, immobilità e libertà che in nessun modo potrà essere modificato.
III. La visione del Sâmkhya-darshana brahmanico (sintetizzata nello schema allegato) ci consente pertanto di affermare con molta forza che l'uomo appartiene alla natura, la quale è trascesa soltanto dallo Spirito; e vi appartiene in modo totale, così da comprendere anche tutto l'insieme delle sue facoltà psichiche, che non sono "materiali" o "grossolane" come il suo corpo fisico, ma sono costituite comunque, per così dire, da una materia rarefatta e "sottile" al punto di non essere percepibile dai sensi. Consegue da una simile visione che tutte le forme di vita, specialmente quelle animali e vegetali, determinano l'equilibrio di quell'insieme meraviglioso che è la vita nel mondo e che il rispetto di tutte le forme di vita è nel medesimo tempo il rispetto della nostra stessa vita, essendo l'uomo partecipe di quel continuo fluire delle esistenze, che già le Upanishad definirono come un'immensa fiumana, chiamandola samsâra, una parola significa "scorrere insieme".
IV. Ed è proprio da questa situazione esistenziale che sorge il problema, almeno per quanto concerne le religioni dell'India, che sulla base dei diversi darshana costruiscono ciascuna la propria visione del mondo, ma che, nel medesimo tempo, hanno in comune un tratto di fondo, che ha indotto la studiosa francese Madeleine Biardeau a intitolare Un'antropologia del desiderio un importante capitolo del suo volumetto dedicato all'induismo (cfr. L'induismo. Antropologia di una civiltà, Mondadori, Milano 1985, pp. 93 e segg.). Il riferimento testuale più pregnante è un passo di quel grande affresco della cultura hindû che è il Mahâbhârata, più precisamente del suo XII libro, di carattere spiccatamente normativo; in tale passo (adhyâya 167, shloka 29 e segg.) uno dei cinque fratelli Pândava, il veemente Bhîma, intesse un interessante elogio del kâma, il "desiderio", individuando in esso l'unico motore di tutto l'agire umano, non escluse quelle azioni per eccellenza che sono gli atti sacrificali, compiuti anch'essi in vista di un frutto che si vuole ottenere. La stessa rivelazione vedica, del resto, lega indissolubilmente i riti sacrificali ai desideri umani quando afferma che "colui che desidera il cielo deve celebrare sacrifici" (yajñakâmo yajeta). Non solo, ma il desiderio invade anche la sfera stessa del non agire, se è vero che l'asceta, colui che ha rinunciato a tutti i desideri ed è teso soltanto alla liberazione dal ciclo samsarico, è anche designato con l'espressione mumukshu, una parola che significa "colui che desidera il moksha (la "liberazione", appunto)". Sia l'agire (pravritti), sia il non-agire (nivritti) sono dunque connessi con il desiderio, ma in modo diverso, perché quello del rinunciante appare, per così dire, come l'unico desiderio "legittimo", almeno per quanto concerne il conseguimento del fine ultimo della vita.
La vita nel mondo, infatti, e soprattutto a partire dal Buddha, la cui analisi dell'esperienza umana giunge a una conclusione che coincide con quella che Patañjali esprime nei suoi Yoga-sûtra (duhkham eva sarvam vivekinah, YS II, 15), è concepita come un'esperienza "dolorosa", non solo perché l'azione, come ebbero a sostenere i Mîmâmsaka, è in se stessa dolorosa, poiché comporta fatica e sofferenza, ma anche perché proprio le azioni dell'uomo sono la causa del suo perenne ritorno nella vita, e la vita stessa è "dolore", in quanto comporta una continua insoddisfazione, che determina uno stato di "disagio" (duhkha, appunto). Illustra bene questa situazione il re Bhoja nel suo commento al sûtra citato degli Yoga-sûtra: "Il dolore inerente al divenire procede dal fatto che la fruizione degli oggetti non fa che accrescere progressivamente la bramosia, e la bramosia insoddisfatta è fonte di dolore, cui si aggiunge nuovo dolore, quando se ne constata l'inevitabilità" (trad. di Paolo Magnone in Patañjali, Aforismi dello yoga [Yogasûtra], a cura di…, II edizione, Promolibri, Torino 1999, p. 73).
E' naturale, quindi, che l'uomo aspiri a por fine a questa situazione di disagio e che la sua aspirazione si configuri come tensione verso la "liberazione" (moksha, mukti), verso il conseguimento di uno stato indefinibile, ma totalmente altro rispetto alle esperienze della vita, uno stato dal quale non c'è ritorno.
V. Nella sua ricerca di uno strumento per realizzare questo fine, il pensiero brahmanico ha individuato molte vie, ciascuna delle quali comporta - o almeno non esclude - una componente essenziale, che è quella della "conoscenza" (jñâna, vijñâna): una componente che è considerata l'unico strumento di liberazione nella visione più o meno rigorosamente non-dualista (advaita) che va sotto il nome di Vedânta e che è diventata dominante nel pensiero indiano, pur nelle sue molteplici sfumature, almeno a partire dalla Bhagavad-gîtâ. Occorre dire subito che non si tratta di un sapere libresco, ma di correttezza di visione, di consapevolezza, di esperienza interiore della verità: un'esperienza che, in quanto tale, diventa fattore insostituibile di liberazione: in altre parole, la "conoscenza" conduce alla salvezza. Il suo contrario è l'ignoranza (avidyâ), che, come abbiamo visto, rappresenta - e non solo per il Sâmkhya-darshana - la causa del permanere nel samsâra. Naturalmente, anche l'ignoranza non è da intendersi come mancanza di nozioni, ma come negazione della dimensione misteriosa dell'essere, come autoprivazione della consapevolezza del vero. Ignorante non è, in altre parole, chi non sa, ma chi non ha capito o non vuole capire; ignorante è chi "dorme", mentre il sapiente è "desto", è colui che ha sperimentato il risveglio ed è divenuto un buddha, facendo un'esperienza che, nel contesto cristiano, non sarei capace di chiamare altrimenti che di "resurrezione"; il sapiente è disponibile ad accogliere il mistero e la sua sapienza si può anche chiamare fede, se è vero che la fede comporta la disponibilità a considerare ciò che non si vede né si può descrivere come una realtà più vera di quella che quotidianamente si è soliti sperimentare. La "conoscenza" che libera e salva è quella descritta nella Bhagavad-gîtâ (7, 2):

jñânam te 'ham savijñânam idam vakshyâmy asheshatah |
yaj jñâtvâ neha bhûyo 'nyaj jñâtavyam avashishyate ||

Questa "conoscenza unita a consapevolezza, appresa la quale nulla più resta da apprendere quaggiù" consente dunque all'uomo di conseguire il suo fine.
VI. I miei lunghi studi sulla ricerca spirituale dell'India mi hanno condotto alla convinzione che il fine ultimo dell'uomo si può indicare con molte parole, la più efficace delle quali è forse la parola "pace", in sanscrito: shânti. Nell'esperienza religiosa descritta non solo nelle Upanishad, ove la parola shânti figura ripetuta tre volte e preceduta dalla mistica sillaba OM, evocatrice di tutto il Reale, nella nota invocazione che conclude molti passi (cfr., per esempio, Taittirîya-upanishad I.1.1 e Katha-upanishad II.6), ma anche nella Bhagavad-gîtâ, la parola "pace" indica senza dubbio il sommo bene. Mi si consenta di riferirmi qui a un testo da me redatto come Introduzione al libro di Ravîndranâth Thâkur intitolato La casa della pace (Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. XXII e segg.).
Vi osservavo che la parola shânti indica un modo di essere, uno stato interiore di profonda quiete della mente che corrisponde all'esperienza della verità. In questo senso la pace è liberazione e shânti e mukti sono in fondo la stessa cosa; la salvezza, il moksha, il nirvâna si compiono quando l'uomo diventa finalmente libero non tanto da un ipotetico tiranno di questo mondo, quanto piuttosto da quell'unico tiranno che è il suo io; egli diventa libero quando ha superato la logica perversa degli opposti (bello/brutto, buono/cattivo, prezioso/vile, e così via) e, soprattutto di quella coppia di opposti che consiste in attrazione e repulsione (râga e dvesha); essa determina il suo agire ed è la radice di ogni male, in quanto induce allo "smarrimento" (moha), a una visione errata della realtà. L'uomo è attratto dalle cose e le ama o ne è disgustato e le odia: nell'uno e nell'altro caso sorge in lui il desiderio, e il desiderio è causa di legame; è pertanto necessario conseguire la capacità di accostarsi a tutti gli oggetti della nostra esperienza sensoriale con equanimità, senza fare alcuna differenza, per usare una metafora classica, fra un filo d'erba e un pezzo d'oro.
La pace si può esprimere anche in un altro modo e precisamente come recupero dell'originaria "innocenza" assai più che come soppressione, più o meno coatta, del desiderio di sopraffazione. Ecco il senso profondo della cosiddetta non-violenza, della quale il Mahâtmâ Gândhî fece una bandiera. Occorre "essere in pace" per poter operare in modo pacifico. La pace infatti è un dono, il dono che continuamente rammentano, dalle pareti dei templi hindû, le innumerevoli iconografie divine raffigurate nel gesto detto abhaya-mudrâ, cioè con la mano destra alzata all'altezza della spalla e la palma rivolta in avanti, un gesto che indica il "dono dell'assenza di paura" (abhaya-dâna). L'uomo è capace di questo dono "divino" solo se ha recuperato quell'originaria "innocenza" di cui ho appena detto; egli è capace di questo dono se la sua presenza non incute timore, come non l'incuterebbe la presenza di un bimbo in fasce. Il "Non temete" dei Vangeli ha pertanto il medesimo significato dell'altra espressione: "La pace sia con voi", ma proprio per questo la "pace" non si addice all'uomo che vive nel mondo, nella vana ricerca di un compromesso fra la "pace" e l'agire; essa, al contrario, perfettamente si addice all'asceta, che la gente comune considera, in India, come un trapassato, come una persona il cui rito funebre è già stato celebrato.
La Shvetâshvatara-upanishad (IV.11 e 14) afferma che si giunge veramente alla pace solo quando si conosce Dio e l'idea è enunciata con precisione ancor maggiore nella Bhagavad-gîtâ, che lega indissolubilmente la pace alla felicità (2.66) e alla conoscenza (4.39) e afferma che solo chi rinuncia a tutti i desideri giunge infine alla pace (2.71); questo comporta, ovviamente, una disciplina del corpo e della mente, ed è per questo che la pace è presentata come una conquista del vero adepto dello yoga (5.12) in quanto capace di consapevolezza (5.29) e di controllo mentale (6.15):

"Soggiogando costantemente se stesso
e controllando la propria mente, lo yogin
attinge infine quella pace che ha in me il suo compimento
e che rappresenta il momento più alto del nirvâãa".

(Traduzione dello scrivente in Bhagavad-gîtâ (Il canto del glorioso Signore). Edizione italiana a cura di S. Piano, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 157).

Sono parole pronunciate da Krishna, il Bhagavat, il supremo Signore dell'universo, e che vengono riprese in questo modo alla fine del suo insegnamento (18.62):

"In lui tu cerca rifugio
con tutto il tuo essere, o discendente di Bharata;
per sua grazia attingerai la perenne, eccelsa dimora,
che coincide con la suprema pace".

(Ibidem, p. 283).

Ho detto più sopra che shânti e moksha sono la stessa cosa e ne troviamo nei versetti immortali della Gîtâ la più evidente conferma. Non solo, la pace è anche pienezza dell'essere (sat), coscienza del Vero (cit) e beatitudine suprema (ânanda): tre elementi che costituiscono la più nota formulazione vedântica di una possibile rappresentazione del mistero divino; la pace è, in altre parole ancora, "esperienza" dell'indicibile, di una Realtà in cui il cantore, il cantato e il canto sono la stessa cosa.
VII. Prima di giungere alla conclusione del mio discorso vorrei ancora riferire di una mia ulteriore ricerca. Mi sono domandato quale potesse essere l'opposto della parola "pace" e, in un primo tempo, non l'ho trovato. Non l'ho trovato non tanto perché i dizionari dei sinonimi e dei contrari non facciano il loro dovere, quanto piuttosto perché non mi sono trovato d'accordo con le soluzioni proposte, prima fra tutte la parola "guerra" con tutti i suoi possibili sinonimi. Sono infatti convinto che l'errore di fondo che commettono molti di coloro che parlano di pace consista nel considerarla una sorta di "assenza di guerra". Anche in questo caso il pensiero brahmanico ci può essere di aiuto. Occorre avviare la nostra analisi prendendo in esame tutta una serie di opposti, a cominciare da quelli così autorevolmente enunciati nella celeberrima preghiera della Brihadâranyaka-upanishad (I.3.28): si possono così individuare una serie di vocaboli - e di concetti correlati - che comprendono, da una parte, quasi che ultimamamente non fossero altro che sinonimi, non solo sat (l'essere), jyotis (la luce), amrita (l'immortalità), ma anche rita o satya (la verità), dharma (l'ordine e la norma intrinseca delle cose), nirvâna, moksha o mukti (la liberazione), bodhi, jñâna e vijñâna (il risveglio, la conoscenza e la consapevolezza), bhûman o ananta (l'infinito), abhaya (l'assenza di paura) - insomma, tutto quanto siamo soliti chiamare il "bene", e, dall'altra, asat (il non-essere), tamas (la tenebra), mrityu (la morte), ma anche anrita (il falso), adharma (il disordine), samsâra (il ciclo del rimorire), avidyâ (l'ignoranza), anta (il confine), bhaya (la paura) - insomma, tutto quanto siamo soliti chiamare il "male".
Se la nostra riflessione è corretta, e se è vero che l'uomo, da sempre e in ogni luogo, aspira a quel fine che è la felicità, la pace è pertanto sommo bene, felicità (sukha) e quiete / assenza di paura; il suo contrario non è la guerra, ma il male, l'ignoranza e la paura. Se poi vogliamo scendere per un attimo dalla sfera della metafisica a quella dell'esperienza terrena, possiamo dire che, se è vero che chi non ha paura non fa paura, proprio su questo punto si gioca la pace terrena fra le nazioni.
Ma la felicità vera, come la vera pace, non è di questo mondo. Ne troviamo conferma in quel bellissimo passo della Chândogya-upanishad (VII.23.1), ove si afferma:

In verità, l'infinito è la felicità.
Non c'è felicità nel finito,
solo l'infinito è felicità.
Ma bisogna voler conoscere l'infinito…
Là dove null'altro si vede,
null'altro si ode,
null'altro si conosce,
quello è l'infinito.
Là dove si vede qualche altra cosa,
si ode qualche altra cosa,
si conosce qualche altra cosa,
quello è il finito.
Quel che è infinito è immortale,
mentre ciò che è finito è mortale.

(cfr. Saggezza hindû, a cura di Pinuccia Caracchi e Stefano Piano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 200).

Ed è stata per me - e spero che lo sia anche per chi mi ascolta - una bella e interessante esperienza rileggere, in questa luce, i versi che il nostro grande poeta Giacomo Leopardi ha dedicato proprio all'infinito:
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

In questa lirica c'è tutta la "voce" (vâc) del nostro piccolo confine, che non è affatto privo di una sua piacevolezza e che può suscitare il desiderio, a tal punto che il primo incontro con una dimensione senza confini può incutere paura, ma ci sono anche i "silenzi" sovrumani (ashabda-bráhman) e la "quiete" profondissima (shânti) che l'uomo può concepire col pensiero. C'è, infine, quell'annegare del pensiero nell'immensità e quel naufragare che è "dolce" nell'oceano senza confini del mistero come pura gioia.
Era forse giunta all'orecchio del nostro poeta, che compose a Recanati questa lirica nel 1819, una qualche eco del lavoro di traduzione, da un originale persiano, delle Upanishad da parte di Anquétil Duperron?
VIII. L'arte, il linguaggio poetico, che è linguaggio creativo, e la bellezza sono spesso più vicini al Vero di quanto non lo sia lo stesso bene. In altre parole, come sembra volerci dire con le sue liriche mistiche la poetessa hindî Mahâdevî Varmâ, c'è un moksha del poeta. Si pensi allo spirito che Tagore volle infondere alla sua scuola internazionale di Shântiniketan e che si può sintetizzare nel modo seguente:
"Attraverso lo stretto contatto con la natura, contemplando la sua armonia e la sua bellezza, l'uomo può pervenire all'idea dell'unità ultima di tutte le cose e trovare così il pieno appagamento e la pace; in questa visione, infatti, la vita e la morte appaiono, non diversamente da luce e ombra, come due aspetti di una stessa realtà, che l'uomo percepisce come un mistero insondabile. La chiave di questo mistero è l'amore, che è capace, esso soltanto, di rivelare la misteriosa relazione fra finito e infinito".
(Cfr. Introduzione dello scrivente a La casa della pace, cit., p. XIX).
Il poeta dell'India ci dice dunque che la pace non può recare conforto senza l'Amore e questa affermazione mi fa ritornare con la memoria le parole dell'apostolo Paolo (Lettera agli Efesini 2, 13-16):

"… 13 Ora però in Cristo Gesù voi, che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini in virtù del sangue di Cristo. 14 Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto di due una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che era in mezzo a noi, cioè l'inimicizia, 15 … allo scopo di creare in se stesso i due in un unico nuovo uomo, facendo pace, 16 e di riconciliarli ambedue in Dio in un solo corpo per mezzo della croce, uccidendo l'inimicizia in se stesso…".

Per l'apostolo Paolo, dunque, la pace è Gesù Cristo, il che equivale a dire che la pace è Dio, è l'Infinito, è il Bene; la pace, per usare una terminologia cristiana, è l'Amore. Concludendo, quindi, le tre parole che costituiscono il titolo di questa mia comunicazione, dal punto di vista del pensiero brahmanico, ma anche in una prospettiva inter-religiosa, non sono in fondo che sinonimi, e ci trasmettono il messaggio profondo che il "segreto" (la Bhagavad-gîtâ direbbe: guhya) consiste soltanto nell'Amore.


PRAKRITI (PRADHÂNA, AVYAKTA)

PURUSHA
sattva 
rajas 
tamas
   

MAHAT o BUDDHI

  
AHAMKÂRA
  
MANAS
+ 5 organi di
percezione

5 organidi azione
(consentono di:)

5 "elementi
sottili"

UDITO

PARLARE SONORITA'
TATTOAFFERRARETANGIBILITA'
VISTACAMMINAREVISIBILITA'
GUSTOEVACUAREGUSTABILITA'
OLFATTORIPRODURSIODORABILITA'
   
  5 "elementi
grossolani"
 [tanmâtra]
 
 (sonorità ->) SPAZIO
 (+ tangibilità ->) ARIA
 (+ visibilità ->) FUOCO
 (+ gustabilità ->) ACQUA
 (+ odorabilità ->) TERRA