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Una
civiltà tradizionale: la Mesopotamia sumerica e il Sacro.
Pietro MANDER - Università
di Napoli "L'Orientale"
1. La civiltà sumerica alle radici della civiltà mesopotamica
La
civiltà sumerica si sviluppò nella parte più meridionale
dell'attuale Iraq, denominata anche Babilonia meridionale, sorgendo, intorno al
IV millennio a. C., dalla cultura detta di el-Obeid e da quella - che in gran
parte ne fu la continuazione - detta di Uruk (dal nome della città, il
cui nome attuale, Warka, è un chiaro calco di quello antico). Non
si può dire con certezza quando fossero entrati i Sumeri in Mesopotamia
(se mai vi entrarono, e non ne fossero invece aborigeni), né da dove giungessero.
La loro lingua, di tipo agglutinante, non ha parentele strette fra le lingue note
su questo pianeta, se non per alcuni tratti con il Chukchee, una lingua ancor'oggi
parlata da poche migliaia di persone nella penisola Kamchiakta, all'estremo Oriente
della Siberia, prospicente il Mare di Bering, molto lontano quindi dalla Mesopotamia. La
bassa Babilonia tuttavia non era abitata solo dai Sumeri: a Nord ed anche all'interno
dell'area sumerica stessa, erano diffuse genti parlanti una lingua semitica, l'Accadico,
che sopravviverà al Sumerico restando in uso - come lingua parlata - per
tutto il II e parte del I millennio a. C. in Mesopotamia . La civiltà
sumerica è quindi stata una civiltà essenzialmente bilingue, in
cui due rappresentazioni del mondo (dispiegate nei due idiomi) hanno interagito
dando vita ad una cultura profondamente unitaria, che durerà per oltre
tre millenni. Va rilevato come le due lingue fossero tra loro simili come il Cinese
può esserlo con l'Italiano. Noi
siamo debitori ai Sumeri per la prima metropoli, la città di Uruk, esito
della "rivoluzione urbana", il processo che condusse ad una gerarchizzazione
dei centri abitati nel territorio e dell'organizzazione del lavoro. Attorno al
3.100 a. C., o forse ancora prima, i Sumeri, per rispondere a diverse esigenze
della loro società (e non solo di natura contabile o amministrativa, come
s'è ripetuto fin'ora), hanno prodotto uno strumento di vitale importanza:
la scrittura. La lingua sumerica s'estinse, come lingua parlata, attorno alla
fine del III millennio a. C., ma venne mantenuta - così come avvenne in
Occidente con il Latino - nella tradizione letteraria e amministrativa. 2.
La religione sumerica in linee generali Due
secoli circa di ricerche sia archeologiche che filologiche (ricordiamo che Champoillon
"forzò" il codice del geroglifico nel 1822 e Grotefend quello
del cuneiforme negli anni 1802-1815) hanno reso accessibile all'indagine le civiltà
del Vicino Oriente, che per noi erano perdute, poiché su di esse non si
era mantenuto che un vago ricordo dalle pagine di alcuni autori classici e dalla
Bibbia. Si sono
così aperte delle finestre su culture e civiltà sostanzialmente
nuove per lo studioso occidentale che dell'antichità, fino a poco prima,
aveva conosciuto in maniera sufficientemente approfondita, appunto, solo i mondi
ebraico, greco e romano. L'impatto di queste nuove conoscenze, avvenuto per
di più in un'epoca in cui l'espansione politica e commerciale dei popoli
europei portava notizie delle culture cosiddette "etnografiche", costituì
uno stimolo formidabile allo sviluppo del pensiero. Sul piano delle concezioni
religiose poi, il confronto dei "politeismi" greco e romano con analoghe
concezioni acquisite in tutti i continenti, permise di scavalcare il filtro storico
costituito dallo scontro con i monoteismi ebraico prima e cristiano poi. L'aspetto
che maggiormente ci interessa, in questa sede, riguarda appunto il pensiero religioso;
in particolare vogliamo diffonderci sul carattere della medianità, quel
momento essenziale nella trasmissione del Sacro che è posto fra le due
polarità, quella emanante e quella di destinazione. A questo scopo,
cominceremo col fornire dapprima, necessariamente, un breve quadro delle nostre
conoscenze relative al mondo divino sumerico, seguendo, nell'esposizione, un taglio
particolare, che consiste nell'utilizzare una rappresentazione geometrica composta
di assi orientati.
2.1. Assialità del mondo divino come espressione di gerarchia principiale Il
primo asse che si deve considerare è quello verticale. L'assialità
verticale costituisce la struttura portante della cosmologia sumerica. A livello
di pantheon essa si manifesta nella gerarchia degli dèi: infatti il pantheon
appare strutturato lungo questo asse, che parte dalla volta del cielo e discende
fin nelle profondità sotterranee ("abisso", probabilmente mutuato
in Greco proprio dal sumerico Abzu "oceano d'acque dolci sotterraneo"
). L'asse è scandito in livelli, ognuno dominio di una divinità. Partendo
dal livello più alto, troviamo dapprima il cielo del dio An. An vuole appunto
dire "Cielo", ma l'ideogramma con cui è scritto può anche
esser letto dingir "divinità": un'ambiguità certamente
voluta e densa di significato. Dobbiamo immaginarci il cielo di An come quando
esso è senza illuminazione alcuna, ovvero il cielo notturno, che sarebbe
invisibile, se non fosse trapunto di stelle . Come divinità An non svolge
ruoli attivi nella mitologia, tanto da esser stato - non proprio ineccepibilmente
- considerato un deus otiosus. Egli è l'antenato degli dèi (ma anche
dei demoni) e detentore della regalità suprema, seppur inattiva. Se il
mondo divino discende da lui, è presso di lui che gli dèi desiderano
ritirarsi in momenti di crisi. Questi aspetti lo pongono distaccato e al di sopra
delle vicende cangianti dell'universo, irraggiungibile e distante come la sommità
del cielo, suo dominio. Al
di sotto di questo livello si colloca il cielo degli dèi. Tra
essi primeggia, in posizione di sovrano, Enlil, il cui nome significa "Signore-vento",
l'elemento atmosferico che, toccando il cielo di An, raggiunge anche il suolo
su cui camminiamo. Tale sua posizione, intermedia tra le due polarità supreme
di Cielo e terra, è dovuta, secondo alcune tradizioni, alla sua azione
cosmogonica che consistette nell'aver separato appunto questi due elementi primordiali. Mi
soffermo su questo dio, che ci appare come il primo - o forse sarebbe meglio dire:
il sommo - mediatore. Il
dio "Signore-vento" è il vero reggitore del cosmo, il sovrano
indiscusso degli dèi. Terribile ed imperscrutabile nei suoi disegni, il
dio conserva i caratteri meteorici della tempesta, che il vento suscita repentinamente.
Si noti come l'atmosfera, così come il cielo notturno, sia invisibile
anch'essa, anche se l'azione e l'effetto del vento possono esser in diversi altri
modi percepiti. Sul piano mitologico, la sua parola è considerata legge
tra gli dèi, che si recano a porgergli omaggio nel suo santuario principale,
l'É-kur "Casa-montagna", nella città santa di Nippur,
come ci informano almeno due consistenti poemi sumerici. Recarsi a render
omaggio al dio, da parte di divinità subalterne, significava attingere
sacralità, forza divina ad un livello superiore. In questo senso Enlil
appare come il primo anello di una catena, che, attingendo da un livello ancora
più alto, quello legato al principio, il cielo di An, trasmette a sua volta
la forza divina alle divinità subalterne, che, a loro volta, ne irradiano
le città in cui hanno le loro sedi templari. Di
lui un inno molto antico (XXV sec. a. C.) recita: "Allorché
egli (= Enlil) esercita in maniera perfetta / il suo potere come Signore e come
Re, / spontaneamente gli altri dèi si prostrano innanzi a lui / ed obbediscono
ai suoi ordini senza proteste!" Giustamente
tanto Jacobsen che Bottéro pongono in rilievo come la struttura celeste
del pantheon riflettesse la gerarchia del potere nella società mesopotamica;
dev'esser tuttavia anche colto l'aspetto "interiore" di questa corrispondenza.
Il potere politico si costituiva ad immagine del mondo celeste, perché
la gerarchia non significava soltanto legittimazione nell'esercizio del potere,
ma significava soprattutto "irradiazione" di sacralità. Il
sovrano degli dèi, supremo reggitore dell'universo, quindi, per via del
suo carattere di intermediario tra l'irraggiungibile Cielo e il mondo degli uomini,
non a caso è definito "mercante" (epiteto che noi non considereremmo
onorevole, forse pensando alla cacciata dei mercanti dal Tempio ad opera di Gesù),
ma che ben definisce la sua funzione nel mondo divino. Abbiamo
anche visto come Enlil fosse intimamente connesso all'aria, elemento intermedio
tra volta celeste e terra, e quindi al soffiare del vento, al respiro e al fiato.
Il dio infatti è considerato colui che ha elargito la vita nell'universo
(la vita viene identificata col soffio del respiro); inoltre un'emissione di fiato
particolare è costituita dalla "parola": non a caso, - ed emerge
ancora un carattere di medianità (analogo a quello dell'atmosfera) - dal
momento che la parola rende manifesto, per colui che ascolta, l'altrimenti irraggiungibile
ed invisibile pensiero del suo interlocutore. Coerentemente essa ricade pertanto
nel dominio di Enlil, "Signore-vento". Nella
civiltà mesopotamica la parola ha un'importanza primaria. L'espressione
latina nomina sunt essentia rerum avrebbe benissimo potuto esser stata concepita
in Mesopotamia; in particolare, nello sviluppo di quella civiltà, assumerà
importanza la parola scritta. Non possiamo neppure per sommi capi affrontare
questo argomento, che richiederebbe complesse spiegazioni preliminari. Ricordiamo
solo che nelle due lingue, Sumerico e Accadico, non esiste distinzione tra "parola"
e "fatto"; lo stesso termine inim (sumerico) e awÂtum (accadico)
può esser tradotto sia con "parola" che con "fatto".
La parola di Enlil pertanto costituiva il perno dell'universo tutto, umano e divino. Terzo
livello, infine, dell'asse verticale è quello sotterraneo dell'oceano delle
acque dolci, chiamato Abzu, come s'è detto, da cui scaturiscono, tra l'altro,
il Tigri e l'Eufrate. Anche questo livello è invisibile, essendo posto
sotto il suolo, ed in esso si colloca il regno del dio demiurgo, Enki, il cui
nome è di significato incerto: "Signore della terra", secondo
alcuni, come Th. Jacobsen, ma c'è chi autorevolmente contesta tale interpretazione
(W. G. Lambert). Enki è il dio ordinatore dell'universo, signore di sapienza,
dei riti purificatori e della magia. L'acqua, ammorbidendo l'argilla, la rende
plasmabile: in questo senso si deve vedere l'azione demiurgica, trasformatrice
e quindi anche purificatrice del dio . Altra
divinità creatrice è Ninhursanga "Signora del pié-di-monte",
dèa madre la cui forza conduce il seme a germogliare e il concepimento
a giungere alla generazione. Anche la sede della dèa è invisibile,
agendo essa sia sul seme interrato, sia nel profondo impenetrabile dell'utero.
Questa dèa è davvero la "Terra celeste": in quanto
somma divinità, ella appartiene ai livelli più alti del mondo divino,
mentre la sua funzione si esercita nelle viscere, siano quelle della terra, sia
nell'utero. Attraverso Ninhursanga la forza divina discende nel buio sotterraneo
per produrre la formidabile propulsione che genera la vita. Il divino, calato
nella terra, dà come risultato il sorgere della vita individuale, l'ininterrotta
catena della generazione. A
queste quattro somme divinità, An, Enlil, Enki e Ninhursanga, seguono gli
dèi della "seconda generazione": 1. il dio Luna Nanna (anche
chiamato Su'en o, in Accadico, Sîn) ed i suoi figli: 2. il dio Sole Utu,
3. la dèa del pianeta Venere Inanna, 4. il dio della tempesta Iåkur.
Tutte queste
sono divinità di luce: infatti esse rendono manifesto l'universo. Ai
livelli invisibili, quindi, nell'ordine di sequenza "principio - effetto",
segue il livello della visibilità. Appartengono a questa fascia anche:
il dio guerriero Ninurta, il dio esorcista Asanluhi (identificato in seguito con
Marduk, che poi, dalla fine del II millennio a. C., assumerà anche i caratteri
di Ninurta), dio ordinatore del mondo dopo la vittoria conseguita sul demone Asakku.
Sotto ancora
questi livelli, di cui s'è detto, vi è un grandissimo numero di
divinità, di molte delle quali ci è noto solo il nome o di cui abbiamo
poche o nulle notizie. In genere, laddove comprensibili, i nomi di queste divinità
sono epiteti che indicano funzioni: in questo la concezione sumerica è
profondamente diversa da quella babilonese o assira, che conoscono entrambe (sono
quasi identiche) solo un numero molto limitato di divinità. Naturalmente,
dato il carattere bilingue della civiltà mesopotamica, le divinità
semitiche furono riconosciute - ove possibile - in quelle sumeriche, e, quando
ciò non era possibile, le divinità sumeriche restarono nel pantheon
comune col loro nome. Nel
pensiero sumerico, il concetto di verticalità si riflette su tutta la società
umana, in prima istanza sul concetto di regalità, che di quella costituisce
il vertice - in analogia alla struttura gerarchica del mondo degli dèi
- e che, costituendo quindi il punto intermedio privilegiato d'incontro tra la
società organizzata e il pantheon, è idealmente posta infatti nel
punto in cui l'asse verticale discendente incontra la terra. Da quel punto s'irradia
orizzontalmente la potenza divina nel cosmo, respingendo le oscure forze del caos,
come ora vedremo. Analoga
struttura si riscontra altrove, come - per esempio - nell'abitazione domestica
dell'uomo comune o nella celebrazione della ritualità esorcistica presso
un paziente. Come
la luce della Luna nelle acque si riflette sulle onde, così questa concezione
illumina di sé i molteplici aspetti della società: rinvio, per una
visione generale di questa struttura, ai miei articoli General Considerations
on Main Concerns in the Religion of Ancient Mesopotamia, in: S. Graziani ed.,
Studi in Memoria di P. L. G. Cagni, Vol. II, Napoli 2000, pp. 635-64 e "Con
la sua (= del dio ucciso) carne e il suo sangue la dèa BÊletilÎ
impasti l'argilla"(IååÎrÎåu u dÂmÎåu
/ ?BÊletilÎ liballil ia), in: Dei ignoti - riflessi
nello specchio oscuro, Convegno 19-23 Settembre 2001, Eranos Jahrbuch, in stampa.
3. La regalità sumerica Apparve
subito evidente ai primi studiosi europei, che iniziarono ad investigare le antichità
vicino-orientali, che erano confermati alcuni aspetti delle seppur scarse notizie
che la Bibbia e autori classici avevano più o meno coerentemente tramandato.
Infatti le antiche civiltà, che cominciavano a venire alla luce, avevano
prodotto organizzazioni "statali", quelle che sono le più antiche
in assoluto fra quelle note, in cui il potere supremo era tenuto da un sovrano
assoluto, percepito, dagli occidentali educati all'opposizione città libere
- imperi orientali di greca memoria, come dispotico. Questo era invece un
pregiudizio, e perdurò a lungo nei nostri campi di studio, ma il progresso
degli studi, con la tensione continua per raggiungere una visione sempre più
chiara, ha cominciato tuttavia a rivelare realtà molto diverse, articolate
anche in modo complesso. Per illustrare quanto siano differenti tra loro le
realtà politico-ideologiche antico-orientali, accenneremo alla diversa
natura del faraone egiziano ed il re mesopotamico, nelle linee più generali.
Lo studio più approfondito fu condotto da Frankfort , che affrontò
l'esame di entrambe le forme di regalità vicino-orientali, quella egizia
e quella mesopotamica. In questa sede ci limitiamo a ricordare come il Faraone
fosse un dio vivente, convinzione rimasta costante in tutta la storia egiziana.
La linea di successione, dopo che lo stesso dio Râ aveva svolto il ruolo
di primo re, era costituita da suo figlio, il dio Horus, di cui il faraone stesso
era l'incarnazione. Il Faraone morto diventava il dio Osiride, mentre il suo successore
reincarnava nuovamente Horus. In tale prospettiva, il Faraone agiva ben diversamente
da un qualsiasi sovrano mesopotamico, anche da quelli divinizzati o quelli che
si univano con la dèa Inanna nello hieros gamos, in quanto la sua stessa
volontà era quella divina, e non aveva bisogno, come anche i re divinizzati
dovevano fare, di ricorrere alla divinazione per conoscere i disegni del Cielo.
Così, per es., non era tormentato da dubbi al momento di decidere la
costruzione di un santuario: il semplice fatto che egli avesse preso la decisione
costituiva di per sé manifestazione del volere celeste. Il re mesopotamico
era invece costretto a consultare più di un oracolo, spesso secondo tecniche
divinatorie diverse, per esser certo di non incorrere in errori d'interpretazione,
nell'esplorare la volontà degli dèi. Un poema, "la maledizione
di Akkad", narra come un re mesopotamico, Naram-Sin, pur essendo il primo
di quella serie di sovrani - tra la seconda metà del terzo e la prima del
secondo millennio a. C. - ad esser divinizzati in vita, dopo aver visto per la
seconda volta risposte negative da parte degli oracoli, consultati a proposito
del suo progetto di edificare un tempio, s'abbandonasse ad atti di grave empietà
che causarono il tracollo del suo regno avendo suscitato il disappunto divino.
Penso che già questi sommari cenni possano risultare sufficienti a
far intravedere la complessità delle isituzioni del Vicino Oriente Antico.
3.1. Caratteri
generali della regalità sumerica In
uno studio recente, Heimpel ha avanzato l'ipotesi che nei suoi primordi la regalità
mesopotamica fosse conferita "a tempo" e potesse esser rilevata qualora
determinate condizioni (identificabili senza meno in esiti della consultazione
di oracoli) richiedessero la sostituzione della persona regnante. Secondo il pensiero
dello studioso, il potere supremo era affidato ad un sovrano (chiamato en), la
durata della cui carica era detrminata, appunto, da responsi oracolari; il potere
intermedio era invece nelle mani dei lugal (termine che poi verrà usualmente
impiegato in sumerico per esprimere "re"), il cui ruolo, a trasmissione
ereditaria, finì poi per sostituire quello dell'en. Le argomentazioni presentate
dallo studioso sono molto puntuali e bene si concatenano tra loro, tanto da apparire
decisamente convincenti. Non le riassumeremo in questa sede, poiché esse
sono estremamente sottili e articolate; ricorderemo come altri studiosi, tra di
essi anche chi scrive, abbiano ritenuto, su alcuni indizi, che, in un periodo
prossimo a quello considerato da Heimpel, ma in altro luogo, Ebla, nella Siria
settentrionale (XXV sec. a. C.), il potere regale venisse conferito per un periodo
limitato di 7 anni (definito, secondo l'ipotesi dello scrivente, dal ciclo di
poco più di 7 anni compiuto dal pianeta Venere) . Recentemente la questione
è stata attentamente riconsiderata , ponendo in luce come da un lato manchino
prove di alcun genere e come gli indizi siano tra loro contraddittori. Anni fa
Michalowski, concludendo il suo studio su questo argomento, provocatoriamente
citò il caso della regalità azteca, un tipo di regalità "diffusa",
ben distante dalle comuni opinioni, storicamente determinate, degli uomini della
cultura europea . Pur non comprendosi il meccanismo della regalità ad Ebla,
resta certo che un ciclo settennale è documentato come ciclo amministrativo. E'
comunque sicuro, da queste antichissime ed incerte testimonianze, il dato che
la regalità, fin dalle sue più lontane origini (delle quali gli
stessi sumeri avevano perso memoria), fosse profondamente condizionato dal rapporto
col divino. Un carattere, questo, che resterà indelebile - in tutta la
storia della Mesopotamia - nei tre millenni successivi. Il sovrano, quindi,
è partecipe del Sacro, seppur in modi diversi, attraverso gli oltre trenta
secoli di civiltà mesopotamica. L'opinione ereditata dalla tradizione degli
studi dei secoli scorsi, derivata dai classici e dalla Bibbia, relativamente al
dispotismo orientale, non regge più. Il sovrano mesopotamico, tutt'altro
che autocrate tirannico, deve tener conto di un complesso sistema, in cui il suo
potere si colloca, la cui funzione consiste nella trasmissione del sacro. Occorre
ora però comprendere perché ed in che misura il fenomeno si sia
sviluppato nella storia.
3.2. Il sovrano Fra
gli uomini il più importante è il re, perché egli costituisce
la sintesi di tutta l'umanità: vedremo in seguito il valore di quest'affermazione.
Egli è il pastore che conduce il gregge del suo popolo, secondo i disegni
divini. Abbiamo detto che l'asse verticale che parte dal sommo del cielo attraversa
la superficie della terra espandendosi per irradiamento dalla città sul
piano orizzontale. Esaminiamo in dettaglio questo particolare. Il re costituisce
il trait-d'-union tra il mondo degli dèi e quello degli uomini. Se egli
regna secondo la volontà celeste, il regno sarà prospero, i raccolti
abbondanti, il nemico tenuto lontano: in poche parole il "regno felice".
Se invece il re s'allontana dal volere divino, l'asse si spezza e il male s'abbatterà
inesorabilmente sul regno, distruggendolo. La volontà divina viene resa
nota al re mediante la divinazione, come s'è detto innanzi; questa era
effettuata solo per il re - contrariamente a quanto avviene oggi - dai sacerdoti
specializzati. Per questo motivo il re era il "pastore", il solo
che sapeva dove condurre il gregge del suo popolo. Nei manuali di divinazione,
anzi, il re veniva indicato col termine awÎlum "l'uomo", ovvero
l'uomo per antonomasia, che rappresentava tutti gli altri, perché egli
solo sapeva, egli solo era posto difronte agli dèi. Compito
principale del sovrano era l'edificazione del tempio . Il tempio costituiva una
sorta di "parte fisica del dio", quindi permetteva la presenza effettiva
del dio in mezzo al mondo degli uomini. Il tempio santificava la società
umana. Vorrei far rilevare come l'attività dell'edificare consista nell'innalzare
dal suolo materiale originato nella terra (e plasmato in mattoni d'argilla) verso
il Cielo. In maniera del tutto diversa da quella seguita dalla dèa Ninhursanga,
anche il sovrano connettendo Cielo e terra, spinge questa verso l'alto, simbolo
del Divino. Tuttavia
il re per costruire il tempio doveva avere dei responsi oracolari favorevoli,
e per conseguirli doveva aver compiuto gesta tali da renderlo meritevole del verdetto
positivo. Per questa ragione molti sovrani intraprendevano campagne di guerra
(ma talvolta anche solo spedizioni commerciali), respingendo lontano, così,
le forze del caos e quindi allargando i confini del cosmo. La più mansueta
spedizione commerciale svolgeva analoga funzione, dal momento che collegava regioni
lontane al "Centro", ovvero alla fonte dell'irradiamento della forza
divina sulla superficie della terra; anche così, quelle regioni venivano
sottratte al caos. In particolare più sovrani, di diversi regni e dinastie,
vantano la conquista dei Monti delle Foreste dei Cedri (oggi Libano, ma dei grandi
cedri ne son rimasti purtroppo ben pochi), seguendo il paradigma degli eroi mitici,
Lugalbanda e Gilgameå, che attraversarono con successo le foreste: la "selva
oscura". Altri menzionano la "purificazione delle armi" nelle acque
del "Mare Superiore", difficile da raggiungere, essendo con questo nome
indicato il Mare Mediterraneo prospicente le coste libanesi e siriane. Costruito
il tempio, il re vi introduceva la sua statua, in perenne adorazione della divinità,
atto questo che costituiva l'architrave di un sistema che sanciva il compiacimento
degli dèi per l'operato del re, garantendo pertanto una vita felice al
regno. L'importanza della funzione del re, sintesi di tutta l'umanità,
come abbiamo detto, richiedeva particolari cure. Prima di tutto, menzioniamo
la cerimonia dell'intronazione, che costituiva una nuova nascita, dopo la quale
il re riceveva un nuovo nome, e, considerato il ruolo della parola, col nuovo
nome egli avrebbe ottenuto una nuova essenza; infatti egli rinasceva come figlio
di dèi, loro parente o loro prediletto, accentuando così il suo
ruolo di intermediario tra società degli uomini e Cielo degli dèi. 3.3
Conclusioni sulla regalità Rinato
come discendente di stirpe divina, posto al vertice della società per trovarsi
immediatamente al cospetto degli dèi, il re costituisce la sintesi del
mondo degli uomini. Le sue spedizioni respingono il caos sempre più lontano
dai confini del regno felice, dove egli ha restaurato la giustizia, illuminando
come un Sole il suo popolo. Gli dèi lo amano per la sua pietà e
per i risultati che ha saputo conseguire e pertanto i raccolti saranno copiosi,
greggi e mandrie figlieranno in abbondanza, il popolo prospererà nell'ordine
e nella pace. Quando queste condizioni si saranno verificate, l'azione del
re culminerà con la costruzione del tempio e l'introduzione della propria
immagine, in eterna preghiera, posta davanti a quelle degli dèi. Il
vertice dell'umanità è così asceso lungo l'asse verticale,
come il fumo dei sacrifici, fino a toccare il Cielo degli dèi. 4.
Origine dell'Uomo Più
volte abbiamo menzionato gli uomini comuni, quali ultimi destinatari del benessere
che il re deve conquistare attraverso la pratica di azioni giuste e pie. Senz'altro,
però, questa visione è così limitata da risultare fortemente
distorta. Vediamo quindi quale sia il posto dell'uomo nel cosmo. Fin'ora,
dopo aver parlato del pantheon, ho delineato la figura del sovrano, definendolo
punto d'incontro tra la terra degli uomini e il Cielo degli dèi. Ma egli
costituiscce il vertice di un terminale, e quindi egli è solo un elemento
di una realtà più vasta, l'uomo, ovvero dell'essere che popola la
terra, terzo punto dell'allineamento, intermedio tra Cielo e terra, dando origine
così ad una triade Cielo -> Uomo -> terra. 4.1
L'uomo. Sua origine divina: le antropogonie. Un
mito, detto "Inno alla zappa", narra come il dio "Signore-vento",
in un ambiente del suo tempio, denominato significativamente "legame di Cielo
e terra" (dur-an-ki), in un luogo particolare di esso, detto della "carne
che cresce" (uzu-mú-a), estraesse dal suolo il "principio"
(sag in Sumerico, = rêåu in Accadico: "testa") dell'umanità
. La zappa del titolo è quella con cui il dio apre la terra per compiere
l'operazione accennata. Ancora una volta vediamo come la terra sia in grado di
produrre qualcosa attinente ai livelli sommi del Divino. Il principio dell'umanità
è ctonio nella sua natura, ma è reso attivo per l'atto del re dell'universo,
che compie il gesto atto a trasmettere la sua potenza divina. Ma nella letteratura
il tema che ha avuto maggiore sviluppo è quello connesso alla creazione
completa dell'uomo, quale essere vivente e non solo del suo principio. Diversi
miti antropogonici ci informano sulla decisione degli dèi di creare questa
nuova creatura; uno dei filoni più interessanti, perché più
completi, narra come gli dèi minori si fossero stancati del duro lavoro
di mandare avanti il cosmo, e che pertanto si fossero ribellati ai grandi dèi
che quel compito avevano loro affidato. L'attività lavorativa degli
dèi subalterni è rappresentata nella forma di scavo di canali: gli
dèi s'affaticano con zappe e vanghe, così come con le ceste per
portar via i detriti. La terra, qui nella forma di suolo, appare nuovamente come
valenza cosmica. Essa deve esser preparata per accogliere il letto dei canali,
portatori di vita: il lavoro di scavo la trasforma da elemento caotico ed informe
a "Cosmos", polarità armonizzata col principio celeste. Il
più saggio degli dèi, Enki appunto, suggerì, per liberare
gli dèi minori dalla fatica, di creare l'uomo perché si sobbarcasse
lui tale gravoso impegno. Per mettere in atto questo progetto, aiutato dalla dèa
madre Ninhursanga, impastò l'argilla col sangue e la carne di un dio ucciso
(in una versione il dio ucciso sarebbe quello che aveva guidato la rivolta degli
dèi minori) e ne plasmò l'uomo. Il tema della terra viene quindi
ripreso. La terra ordinata dalla canalizzazione (in cui scorre l'acqua dolce dell'Abzu,
sede di Enki), la terra da cui "Signore-vento" trae il principio dell'umanità,
la terra plasmata come mattone d'argilla per costruire il tempio, e ora la terra
plasmata ancora per dotare il nuovo essere di una base corporea. Abbiamo
qui dato una sintesi - come tale parzialmente arbitraria - del contenuto di diversi
miti antropogonici . Il discorso che ne traiamo è tuttavia valido, dal
momento che se ne trovano riscontri in altri ambiti della produzione letteraria
mesopotamica. E'
utile enucleare a questo punto due principi basilari. Il
primo riguarda la parte divina della natura dell'uomo. Nell'uomo è
infatti presente qualcosa che costituiva la vita di una divinità: un principio
divino, quindi, che - come esplicitamente viene affermato nel poema "Atram-hasÎs
(sommamente saggio)" - reca con sé la capacità di ragionamento
e la parola, ovvero le qualità che distinguono l'uomo dagli altri esseri
viventi. La prima
umanità, quella che venne spazzata via dal diluvio, godeva di vita lunghissima,
sopraggiungendo la morte solo per accidente . Questa umanità venne spazzata
via dal Diluvio Universale, voluto da Enlil, "Signore-vento", disturbato
dalla crescita di questa nuova specie, consanguinea con gli dèi. Ma
anche la vita degli dèi era concepita in modo simile a quella della prima
umanità, non essendo essi immortali come nel paganesimo classico, anche
se, dopo la morte - che poteva sopraggiungere solo per esito di un atto violento
-, divenivano attivi come divinità infere . L'umanità successiva
- quella cui apparteniamo anche noi, secondo la concezione sumerica - è
invece soggetta comunque - dopo breve vita - alla morte. Solo Ziusudra / Utanapiåtim,
il Noè mesopotamico, che con la sua arca salvò gli esseri viventi
dall'annientamento, raggiunse l'immortalità, donatagli dagli dèi
come gratificazione per il salvataggio compiuto: il dono dovrebbe essere interpretato
come connotazione di posizione iniziale. Infatti tutti discendiamo da lui, e,
finché la discendenza prospera, egli, che le ha dato inizio, vive, seppur
in un'isola oltre le "Acque della morte", come è detto nel poema
di Gilgameå. Occorre
anche dire che gli dèi gradirono la sopravvivenza dell'umanità perché
da essa salì al Cielo il fumo dei sacrifici (ecco la rappresentazione dell'asse
verticale in direzione stavolta ascendente). 4.2
Le entità "protettrici": anime multiple esterne. La
presenza divina nell'uomo è anche altrimenti documentata. La letteratura
cuneiforme parla, infatti, di diverse entità divine (o perlomeno super-umane)
cui si attribuisce la generazione della persona (accanto a quella naturale, operata
dai genitori) e che sono anche poste a sua tutela. Queste concezioni, non omogenee
nei tremila anni di tradizione, comunque nominano in posizione di spicco il cosiddetto
"dio personale", che non va considerato come entità estranea
all'uomo, anche se può adirarsi ed allontanarsi da lui, per la sua cattiva
condotta, abbandonandolo in balia dei demoni. Esso, come le entità cui
alludemmo, che devono essere considerate come un sistema di "anime multiple
esterne" , dev'esser ricondotto al sangue divino presente nell'uomo al momento
della sua creazione. Quindi:
sangue e carne di un dio, progenitore immortale, accettazione del favore divino
per la celebrazione di atti rituali e infine entità divine connesse direttamente
alla sua vita costituiscono tutti dei fattori che indicano chiaramente la presenza
del divino nell'uomo. A differenza degli dèi, l'uomo è anche
composto d'argilla, la materia plasmabile più comune in Mesopotamia, nella
quale riconoscerei - come ho detto prima - l'elemento corporeo, di cui invece
gli dèi son privi. L'elemento intermedio (l'uomo) tra Cielo e terra
appartiene - per l'aspetto fisico - a quest'ultima, e, proprio in virtù
di tale stretta connessione, egli può trasformarla nell'immagine che rispecchi
il mondo celeste. 4.3
Compito divino dell'uomo; suo ruolo centrale nel cosmo. Dopo
aver considerato questi dati relativi all'origine dell'uomo e alla sua psicologia,
possiamo finalmente renderci conto della sua posizione nel Cosmo. Infatti,
come secondo punto, dobbiamo osservare che il compito dell'uomo è un compito
da dèi: egli infatti è stato creato per accollarsi il lavoro che
gli dèi subalterni non volevano più svolgere. Il lavoro, lungi
dall'essere una maledizione, costituisce la ragione della centralità dell'uomo
nell'universo. Solo l'uomo ragiona e parla, come gli dèi, avendo acquisito
tali capacità con il sangue e la carne del dio ucciso, e quindi, in virtù
di tali doti, può prendere il posto che era delle divinità inferiori
nell'universo. Quindi
l'uomo è centrale nel cosmo: l'asse verticale che discende dal Cielo e
passa per l'elemento atmosferico ("Signore-Vento"), giunge nel luogo
dell'Uomo, da cui risale la connessione col Cielo stesso attraverso il culto.
L'opera dell'uomo rende effettiva, su un piano inferiore, la volontà degli
dèi. Dal piano verticale del rapporto Cielo-terra, l'esistenza dell'uomo
sposta sul piano orizzontale l'irradiazione della forza divina: questo è
il suo lavoro, trasformare in cosmo il caos. Il "regno felice", il cui
re è "allineato" lungo l'asse verticale, costituisce la realizzazione
piena di questo concetto. I suoi confini sono quelli che separano il cosmo dal
caos. Se consideriamo la visione del "regno felice" attraversato
dai raggi irradiati dal Centro - come fossero canali portatori di quell'acqua
che consente la vita, troviamo nuovamente il concetto della terra divinizzata,
resa celeste dalla potenza divina trasmessale dal lavoro dell'uomo. Quest'ultimo,
in tale riguardo, è "corpo spirituale", come si evince dai particolari
della sua creazione ad opera di Enki e Ninhursanga. Anche
l'umanità, quindi, costituisce un elemento intermedio - di cui il sovrano
costituisce l'apice -, il che conferma ulteriormente la realtà della sua
natura anche divina, partecipando l'elemento mediano alle due realtà fra
cui è posto. 5.
Il "centro" e il Cosmo Di
conseguenza il paese, in cui l'uomo vive e lavora, rispecchia, nella sua struttura,
la realtà prima cui è connesso: il Cielo degli dèi . Questo
paese è quello in cui sorgono i templi degli dèi ed in cui gli uomini
parlano la stessa lingua degli dèi: anzi, essendo un paese bilingue, le
due lingue vengono - con un'immagine che farebbe inorridire un linguista di oggi
- considerate due metà dello stesso pesce. Questo è il paese
posto al centro del mondo, anzi: del cosmo. Troviamo
conferme esplicite a quanto ora affermato in tutta la storia mesopotamica. Nel
sogno di un principe sumerico della fine del III millennio a. C., il dio poliade
gli appare ordinandogli di costruirgli il tempio. Il progetto della costruzione
- sempre nel sogno - è tracciato dalla dèa delle misure, Nisaba,
su una tavoletta di lapislazzulo (che ha il colore del Cielo), sotto forma di
costellazione. In un testo tardo, invece, le città vengono poste ognuna
in corrispondenza con un determinato astro. Il "Paese" per antonomasia
è il riflesso delle realtà celesti, ed è proprio questa condizione
a renderlo unico nell'universo. Gli altri paesi posti attorno e i popoli che
li abitano, le lande selvagge dei monti dell'Iran o del Libano, i deserti, i nomadi,
sono tutti indifferentemente espressione del caos. Sul
piano orizzontale quindi, le due polarità, cosmo e caos, si fronteggiano
in un confronto senza fine. Il regno pertanto è rappresentato come un'area
di ordine (Cosmo), che si estende a partire da un "Centro", difeso contro
la turbolenza del Caos; il Centro costituisce il punto d'incontro tra il piano
orizzontale del mondo degli uomini e l'asse verticale che si eleva fino al Cielo
degli dèi. Lo spezzarsi dell'asse causa la rottura delle difese del regno,
e le forze del Caos vi irrompono devastanti. Come è inequivocabilmente
chiaro, il Centro, punto d'incontro del piano orizzontale con l'asse verticale
è rappresentato, sul piano sociale, dal tempio e dal re. La
letteratura cuneiforme non ci ha lasciato escatologie, soterologie, apocalissi
né alcuna indicazione circa la fine dei tempi. Abbiamo testimonianze
su Berosso che avrebbe parlato di simili dottrine presso i Babilonesi, ma nulla
ci risulta che possa ricondursi a quanto riferito sulle sue affermazioni sulla
base alle fonti cuneiformi. Mancano sia una dottrina sull'origine, sia una sulla
fine. Nei prologhi dei miti spesso ci sono accenni estremamente succinti agli
inizi, ma sono sempre a carattere cosmologico. Tutti
i racconti menzionano il "giorno primordiale", in cui gli eventi della
creazione ebbero luogo ; tuttavia nessun racconto "risale" oltre questo
"gradino": varie fasi vengono ricordate, quali (seguiamo un arbitrario
ordine di sequenza logico): la divisione del Cielo dalla terra, l'attuarsi di
eventi indicati da verbi di difficile comprensione, tutti impersonali, e infine
la nascita degli dèi, la determinazione dei destini e dei disegni progettuali
dell'universo. La menzione del giorno primordiale e l'uso di espressioni negative
del tipo: "quando A e B ancora non esistevano ..." hanno indotto a ritenere
che con questi mezzi si esprimesse il "passaggio" dal Non-essere all'Essere,
altrimenti inesprimibile impiegando il linguaggio figurato del mito . Possiamo
tuttavia affermare che vi dev'essere una concezione relativa ai cicli cosmici,
secondo la quale altri dèi hanno retto l'universo prima di Enlil "Signore-vento";
ma nulla ci è tramandato su quei periodi. Conosciamo solo qualche notizia
sui cicli subalterni, all'interno del ciclo di Enlil, quali quello delle umanità
pre- e post-diluviane. Possiamo anche riconoscere indizi che conducono ad una
dottrina di decadenza dei tempi, in cui l'umanità, più procede nella
sua storia, più perde le capacità che gli antichi possedevano. Quello
che va rilevato, in questo contesto, è la medianità dell'era attuale,
quella - per intenderci - in cui è Enlil, il re dell'universo. Gli dèi
delle ère precedenti - quindi del passato - costituiscono un aspetto degli
inferi. Nulla dicono i testi, purtropppo, sul futuro. Ma possiamo capire questo
silenzio, perché per i mesopotamici il futuro era alle spalle dell'uomo,
che infatti non poteva vederlo, mentre il passato era difronte ai suoi occhi e
così egli poteva averne cognizione . 7.
Ancora sul sistema degli assi Abbiamo
poc'anzi accennato alla morte violenta di alcuni dèi, e abbiamo anche ricordato
come, nella celebrazione delle nozze sacre, il re impersonasse Dumuzi (in Accadico:
Tammuz). Avevamo anche menzionato la teoria di Heimpel circa l'originaria antichissima
regalità a tempo, connessa al culto della dèa Inanna in Accadico:
Iåtar), la Venere sumerica. Dobbiamo ora riprendere questi quattro accenni
per illustrare un ulteriore aspetto del sistema degli assi. Ci è pervenuta
un'abbondante letteratura relativa agli amori del dio (o semi-dio) Dumuzi con
la dèa Inanna , culminati, dopo il matrimonio della coppia, nella tragica
fine di lui, ucciso e condotto agli inferi dai demoni. Negli inferi Dumuzi diviene
un funzionario importante e uscirà da quel luogo per rastrellare e ricondurvi
i fantasmi che infestano le case dei vivi. In tale occasione egli dev'essere sostituito
dalla sorella Geåtinanna, perché un'altra persona deve prendere il
posto di chi esce dagli inferi . Non è fornita una spiegazione sulle
cause dell'assalto dei demoni; secondo un'altra tradizione è invece la
dèa Inanna stessa, che, scesa negli inferi, viene salvata ma, per uscirne,
dovendo trovare chi colà la sostituisca, indica ai demoni che la scortano
il malcapitato Dumuzi, poiché questi non mostrava dolore per la vicenda
della dèa. Ma, anche in questa tradizione, non è dato sapere perché
la dèa avesse deciso di scendere agli inferi. Inanna è la divinità
che connette tra loro realtà opposte (forse per questo è scesa agli
inferi: per connettere il mondo celeste a quello dei morti). Il pianeta Venere,
infatti, è visibile solo nei crepuscoli, e allora sembra o chiudere il
giorno o annunciarne il fulgore. I sacerdoti della dèa, per rappresentarne
questa sua funzione, pur essendo maschi, indossavano vesti femminili; ma un altro
aspetto dev'essere messo in luce. La dèa è esplicitamente rappresentata
come prostituta, che s'affaccia alla finestra della taverna per adescare clienti
tra coloro che tornano dal lavoro. In questa veste, ella è esaltata in
inni in suo onore, ove leggiamo, per esempio: "O
prostituta, tu frequenti l'osteria e, o Inanna, ti affacci alla finestra per richiamare
amanti: o Inanna, signora di mille funzioni, non vi è divinità che
ti sia pari!
lascia ch'io canti la tua magnificenza!" Certamente
anche questo aspetto della dèa è da ricondursi alla sua funzione
cosmica di nesso tra domini diversi, se non opposti. Infatti l'attrazione sessuale
unisce tra loro i generi maschile e femminile: solo l'amore, però, e non
la generazione, rientrano nelle competenze della dèa, dal momento che ella
non ha mai avuto figli (la mitologia le attribuisce solo la dèa Nanaja,
come figlia, ma quest'ultima altro non è che la personificazione di uno
dei suoi aspetti secondari). Sempre nel gioco di contrapposizione tra realtà
opposte, ritroviamo Inanna agli estremi confini del mondo: un poema, "Inanna
e Bilulu" (evidentemente correlato ad una terza tradizione della sua vicenda
con Dumuzi) narra come ella vendichi l'assassinio del marito Dumuzi uccidendo
l'ostessa Bilulu ed il figlio, che vivevano gestendo una taverna ai confini della
steppa desertica. La taverna ai confini del mondo si ritrova nel poema di Gilgameå,
allorché l'ostessa Siduri, si rivolge all'eroe, giunto sulla costa delle
Acque della Morte, oltre le quali si trova l'isola dell'immortale Utanapiåtim,
esortandolo a godere delle cose semplici e profonde della vita, accettando il
destino di morte comune a tutti gli uomini. La taverna posta tra mondo civilizzato
e steppa desertica costituisce un punto di passaggio non solo topograficamente,
ma anche sotto l'aspetto della bevanda alcoliche (birra) che ivi si vendeva. Infatti
la birra è essa stessa il risultato dell'unione di due sostanze diverse,
l'orzo e l'acqua, ma non solo: essa conduce da uno stato di coscenza ad un altro.
per questa particolarità essa è paragonata al lubriuficante femminile
nei canti d'amore di Inanna e Dumuzi, essendo quella la sostanza che permette
la realizzazione del congiungimento. Inanna, come s'è accennato a proposito
del poema "Inanna e Bilulu", è anche una divinità guerriera:
la battaglia è detta "danza di Inanna", e conosciamo inni alla
dèa che ne esaltano l'aspetto di furor guerriero nella pugna. Non è
fuor di luogo ricordare come l'epica sumerica si svolga nel segno della dèa,
poiché i contendenti si affrontano per ottenere la sua predilizione. Anche
l'epica classica, pensiamo al "ciclo di Troia" o all'Eneide, cantano
gesta in cui Afrodite / Venere ha funzione di causa: la scelta di Paride e la
discendenza di Enea sono determinanti infatti nello sviluppo delle vicende. Possiamo
quindi immaginare Inanna come una pulsione potente che spinge da uno stato o dominio
a quello opposto o contrario. Anche Dumuzi svolge un ruolo simile, complementare
a quello della dèa. Dumuzi, unendosi con la dèa, consente alla
forza celeste che a lei è propria, di discendere in terra, rendendo il
mondo fiorente e prosperoso. Il re, infatti, personificando Dumuzi nel rito dello
hieros gamos, svolge appunto questa funzione, propria del dio. Infine vorrei
notare altri due significativi aspetti, corollari a quanto or ora esposto. La
dèa Inanna è collegata ad una dèa Nungal, il cui tempio (che
non casualmente è sito all'interno del complesso sacro di Enlil) è
una prigione, in cui viene rinchiuso l'uomo che abbia abbandonato il suo "dio
personale" - l'elemento divino da cui l'individuo trae principio, di cui
s'è accennato sopra - e dove questi soffre le pene della detenzione. Al
termine del suo soffrire, egli sarà sottoposto ad un'ordalia fluviale (si
noti come il fiume, tracciando il confine tra i territori delle due sponde, funga
da passaggio per chi, essendo puro, può agevolmente superarlo). L'uomo
quindi, dopo tale passaggio si riconcilia col suo dio personale. Si noti che l'acqua
del fiume scaturisce dall'Abzu sotterraneo, dominio del dio purificatore Enki,
come s'è detto prima: da qui la loro capacità purificatoria. Di
nuovo abbiamo la dèa Inanna connessa ad un cambiamento di stato, da uomo
impuro alla purezza, rappresentata dalla riconciliazione col proprio principio
superiore. Abbiamo
poc'anzi accennato alla prostituzione e a come questa fosse correlata intimamente
con la dèa Inanna. Molto diffusa nell'area mesopotamica e siro-palestinese
è l'immagine della "signora alla finestra", in cui un volto femminile,
visto di fronte (rappresentazione rara nell'arte del Vicino Oriente Antico, che
preferiva il profilo), s'affacciava incorniciato dagl'infissi della finestra.
Questa è Inanna, la prostituta che adesca i clienti affacciandosi "in
vetrina", si direbbe oggi. Ma, a differenza di oggi, la prostituzione legata
alla dèa, quella delle ierodule, aveva una valenza sacrale, anche se questo
aspetto, per noi che abbiamo millenni di monoteismo dietro le spalle, può
apparire indecente. Valga per tutti l'esempio fornito nel grande poema di Gilgameå. La
popolazione della città di Uruk era sfinita per le pretese del suo sovrano,
Gilgameå, animo inquieto e mai soddisfatto. Gli dèi allora, implorati
dal popolo, creano un uomo selvaggio, Enkidu, che viveva nella steppa selvaggia
insieme agli animali. Enkidu divenne tosto un problema per i cacciatori, poiché
li metteva in fuga col suo aspetto tremendo e distruggeva le trappole da essi
predisposte. Allora essi si recarono dal loro re, Gilgameå, che propose
di far ammansire Enkidu dalla prostituta Åamhat. Dopo l'unione con la donna,
gli animali non riconoscono più Enkidu e lo fuggono. Rimasto solo, l'uomo
selvaggio segue Åamhat ad Uruk, dove si accinge a battersi contro Gilgameå.
Il resto della vicenda è noto: i due rivali divengono amici e compiono
insieme grandi gesta. Quello che c'interessa ora è il passaggio dallo stato
selvaggio alla civiltà, e la modalità con cui ha avuto luogo.
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