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| L’ILLUSIONE
DELLO SPIRITO E LA FORZA DELLA TERRA:
“Noi arriviamo solo alle soglie del tutto”
(Ernst Jünger) CLAUDIO BONVECCHIO Tale profonda ed insanabile frattura
ha il suo momento genetico e costitutivo nel mondo greco e, precisamente, nel
pensiero dei presocratici. È, infatti, Parmenide che – con un taglio netto – ha
affermato che «Pensare ed Essere sono la stessa cosa»[1],
con ciò sottolineando come la vera esistenza sia la funzione superiore e spirituale
del pensare che – simboleggiata dall’immagine del fuoco – è la causa efficiente
del tutto, contrapposta alla Terra che è solo materia[2].
Inoltre, assegnando – come riporta Plutarco – il carattere dell’intelligibile
e dell’incorruttibile all’essere, cioè al pensare, condanna il sensibile (la Terra)
a «specie dove regnano il disordine e il moto»[3]:
ossia ne fa il regno del non essere. Ma ciò, a sua volta, configura il mondo sensibile
come il luogo dell’opinabile e dell’apparenza[4]:
in una parola – come scrive Filodemo – del “fallace”[5].
Appare evidente come si stagli un essere spiritualizzato e pensante ed una materia
corporificata, soggetta a corruzione e fonte, illusoria, di tutto quanto è estraneo
alla verità. Sulla stessa lunghezza d’onda parmenidea,
si situa Pitagora, il quale, a detta del suo biografo Porfirio, non soltanto proclama
l’assoluta superiorità dell’intelletto – lo stato spirituale fonte di ogni verità,
in quanto strumento dell’anima – ma anche giudica il mondo terreno simile ad un
carcere, in cui tutto è oscurità e cecità: «Praticò una filosofia il cui scopo
era preservare e liberare completamente da questo carcere e da questi legami l’intelletto
che ci è stato assegnato: senza il quale niente di sano né di vero si potrebbe
assolutamente conoscere né scorgere, pur agendo con qualunque senso. L’intelletto
infatti di per sé “tutto vede e tutto sente, il resto e sordo e cieco”»[6].
Da questa prigione corporea[7]
(che è tutt’uno con l’esistenza, la Terra e la natura), l’uomo – secondo la dottrina
pitagorica della metempsicosi – deve affrancarsi, per reincarnarsi in un essere
superiore e al fine di poter percepire «l’armonia universale delle sfere e degli
astri che si muovono in esse, la quale noi non sentiamo a causa dell’insufficienza
della nostra natura»[8].
Il carcere pitagorico assume un carattere
ancor più specifico in Platone, in cui – associato alla buia immagine della caverna
– diventa tutt’uno con la Terra[9].
Nel mito platonico, infatti, si narra di un luogo sotterraneo in cui gli uomini,
sin da fanciulli, vi si trovano “incatenati” e incapaci di vedere altro che ombre,
proiettate su di un muro a causa di un fuoco che si trova alle loro spalle e che,
ovviamente, scambiano per la verità[10].
A questa – che, per Platone, è la condizione umana – si può porre rimedio solo
fuggendo dalla caverna e imparando ad accostarsi alla vera luce: ossia alla verità.
In questo modo – scrive Platone – l’uomo «potrà vedere più facilmente le ombre
e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque
e, da ultimo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà
che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e
della luna…Per ultimo, credo potrebbe vedere il sole e non le sue immagini»[11].
È evidente – ma è lo stesso Platone a sottolinearlo, interpretando il suo mito
– che l’uscita dal carcere coincide con l’ascesa dell’anima al mondo intelligibile[12]. A sua volta,
tale ascesa – non differentemente da quanto già affermato da Parmenide e da Pitagora
– coincide con l’implicita separazione dall’anima dal corpo: l’ostacolo principe
all’ascesi dell’anima. Riportato alla filosofia platonica, la separazione anima-corpo
attribuisce alla purezza-leggerezza uranica della prima (l’anima) il carattere
dell’episteme, della scienza, mentre alla pesantezza-corruzione del secondo
attribuisce il carattere della doxa: ossia dell’illusione. Si profila,
di conseguenza, l’immagine di un corpo illusorio (non può essere verità a se stesso)
che induce inganni, in un avvitamento senza fine. È l’avvitamento dell’umanità
che non pratica o rifiuta di “farsi anima”: di farsi spirito. Esplicitamente, il tema della Terra-caverna-corpo-carcere
troverà, poi, una compiuta sistemazione e una rafforzata influenza nella tradizione
neoplatonica che, a sua volta, s’innesterà su quella cristiana diventandone una
sorta di nobile (anche se pagano) antecedente. È il caso del Somnium Scipionis,
il racconto ciceroniano destinato a straordinaria risonanza in tutto il periodo
cristiano-medioevale. Nel Somnium Scipionis – che Macrobio commenterà,
ispirandosi a Plotino e al neoplatonismo – Scipione il Giovane sogna di incontrare,
sulle rotte stellari degli dei e degli eroi, Scipione il Vecchio cui si rivolge
per avere conforto, consigli e aperture profetiche. Tra le varie domande, una
è di particolare rilievo. È quella in merito al destino riservato a suo padre
naturale Lucio Emilio Paolo, da tempo estinto: ossia se sia, in qualche modo e
in qualche forma, ancora vivo. La domanda – apparentemente di scarso rilievo e
riportabile all’ansiosa curiosità umana per la propria sorte post mortem
– in realtà è fondamentale per la risposta che ne segue e che riguarda l’essere
stesso dell’uomo, il suo significato e il suo modo di essere nel mondo. Le parole
di risposta del vecchio Scipione – parole che ricordano i canoni dell’Orfismo[13]
– sono, dunque, destinate a rimanere nella storia e nella memoria dell’Occidente
per l’enorme influenza che avranno: «Immo vero, hi vivunt, qui e corporum
vinclis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero quae dicitur vita mors est»[14].
Di particolare interesse è interpretare
la prima parte della frase – in cui il corpo è, espressamente, associato alle
catene e al carcere – con l’ultima «vestra que dicitur vita, mors est»
in cui si sottolinea, con esplicita chiarezza, che quella che gli uomini ritengono
essere la vera vita non è che la morte, mentre quella che è, comunemente, considerata
la morte altro non è che la vera vita. Ne viene che l’immortalità – l’eterna ricerca
dell’homo mortalis e l’antidoto alle sue ancestrali paure – si può
conseguire solo abbandonando la materialità del corpo, in nome dell’eterna vita
dello spirito: del tutto immune dai vincoli costrittivi della materia. In tal modo, nel Somnium Scipionis,
il mito platonico della caverna si fonde – in un linguaggio più esplicito e colloquiale
– con la saggezza ciceroniana e, colorandosi di una tonalità gnostico-neoplatonica,
appare come la sintesi perfetta ed indubitabile di una straordinaria rivelazione.
Una rivelazione che unisce il mondo greco a quello romano, per trionfare definitivamente
in quello salvifico, profetico ed escatologico del cristianesimo. Il rifiuto del
corpo è, così, la condizione per raggiungere quella episteme – ancora illuminata
dalla luce del mito quando si esprime come discesa dell’anima sulla Terra attraverso
la costellazione del Cancro e come sua successiva risalita al settimo cielo attraverso
quella del Capricorno[15]
– che coincide con un ben preciso habitus esistenziale: il rifiuto del
corpo e, con esso, della Terra che gli dà la vita. È, sostanzialmente, l’invito
ad uno stile dell’esistenza consono a questa straordinaria e decisiva rivelazione
sulla vera vita, al di là delle tenebre della morte. Rivelazione che sancisce
la condanna della vita terrena: il regno paolino del saeculum, dell’inganno
e della dannazione. La doxa platonica – in una drammatica esasperazione
– diventa il sinonimo di un miserabile destino: quello cristiano della dannazione,
coincidente con il corpo e con il saeculum. Si può allora comprendere come – qualche
secolo e dopo in perfetta sintonia e consequenzialità – il disprezzo del corpo
e del mondo diventi il leit motiv non solo della vita monastica e cenobitica[16],
ma anche del perfetto cristiano, secondo il dettame di San Paolo: «Infatti ciò
che fu impossibile alla Legge, in quanto era resa impotente a motivo della carne,
Dio l’ha compiuto, inviando, a motivo del peccato, il suo proprio Figlio
in una carne somigliante a quella del peccato, ed ha condannato il peccato
nella carne, affinché le esigenze della Legge fossero compiute in noi, che camminiamo
non secondo la carne, ma secondo li spirito»[17].
Il disprezzo del corpo diventa lo scopo primario e fondamentale di uomini pii
e sensibili, anche se del tutto inseriti nella vita terrena, come dimostra l’esempio
del grande sovrano franco Carlomanno (lo
zio paterno di Carlo Magno) che abbandonerà regno e potere – «amore conversationis
contemplativae succensus »[18]
– per vestire, a Roma, l’abito monacale e con esso rifiutando il terreno. Ma si
può comprendere anche la paura che i corpi – fonte continua di possibili e maligne
tentazioni – provocano nei fedeli. Cosa questa che testimoniano gli antichi inni
liturgici, dove se alla preghiera viene demandato il compito di fugare i fantasmi
notturni che contaminano la fragile carne («hostemque nostrum comprime,
ne polluantur corpora»[19]),
allo Spirito Santo è affidata l’impresa di purificare e santificare, con la sua
luce e la sua forza, un corpo che se non
è “templum Dei” non può che essere “templum diaboli”[20]. Tale profondo disprezzo per il corpo
– carcere dell’uomo – ha il suo vertice insuperato nel De contemptu mundi
del diacono Lotario dei conti di Segni, salito l’8 gennaio 1198 al soglio pontificio
con il nome di Innocenzo III. Innocenzo – in una maniera del tutto inusitata, aggressiva, passionale e violenta
– si scaglia, già all’inizio della sua opera, contro l’uomo, sottolineando come
questi altro non sia che Terra, come tale «concepito nella colpa, nato a soffrire»[21].
E prosegue, poi, con espressioni che – oltre a passare alla storia della lotta
contro la corporeità per la loro asprezza e durezza – sottolineano il consolidarsi
definitivo (e al negativo) del rapporto corpo-Terra-donna: «L’uomo è formato di
polvere, di fango e di cenere, e ciò ch’è ancora più miserabile, di seme immondo;
viene concepito nello stimolo della carne, nell’ardore della libidine, nel fetore
della lussuria, e quel ch’è peggio, con la macchia del peccato: nasce alla fatica,
al dolore, alla paura, e ciò ch’è ancor più triste, alla morte. Compie azioni
malvagie con le quali offende Iddio, il prossimo e se stesso; commette disonestà
per le quali macchia il suo onore, la sua coscienza e la sua persona; s’affatica
dietro cose vane, trascurando le utili e le necessarie. Diverrà cibo del fuoco
che sempre arde e brucia inestinguibile, esca del verme che sempre rode e consuma,
mucchio di putredine orrenda, d’un fetore insopportabile»[22].
Questa radicata tensione anticorporea, antifemminista ed antiterrena trionfa,
infine (e siamo realisticamente nel XIV secolo), con la celeberrima De Imitatione
Christi, attribuita al grande mistico
Tommaso da Kempis. In tale scritto, è lo stesso Cristo ad invitare, dolcemente
ma fermamente, l’uomo – se vuol trovare se stesso in Dio – a staccarsi completamente
dalla materialità (e, quindi, dalla corporeità), piegando i sensi alla verità
divina e alla perfetta coscienza che ne consegue. «Perfecta
victoria est de seipso triumphare. Qui enim semetipsum subjectum tenet, ut sensualitas
rationi, et ratio in cunctis obediat mihi, hic vere victor est sui, et dominus
mundi»[23].
È un chiaro, esplicito,
invito ad abbandonare la Terra e a salire al cielo. II. LA FORZA DEL CIELO. Come è facile concludere, con un
processo lento ma irresistibile – a fronte del profondo disprezzo per la Terra
e per il corpo – si assiste al lento sopravvento del cielo e dell’intelletto,
diventati metafora dello spirito. Intelletto soprattutto – situandosi, fisiologicamente,nel
cerebrum – simboleggia il cielo dell’uomo e tende ad occupare il gradino
più elevato di una scala in cui tutto ciò che è terreno è all’ultimo posto. Il
che – in una sorta di ideale arco storico[24]
– conferma le parole di Pitagora riferite da Porfirio secondo cui l’intelletto
per prepararsi a scorgere ciò che esiste realmente deve distogliere gli occhi
dell’anima dal corporeo, per sua natura instabile[25].
L’intelletto che viene considerato come l’emanazione dell’anima è, insomma, l’attributo
perspicuo di “quell’uomo interiore” eternamente impegnato, secondo Plotino, nella
noesis, nel pensiero[26]
e, perciò, totalmente estraneo al terreno: cioè al corpo. Quest’ultimo – concepito come la triste
necessità del mondo – sarà costantemente sperimentato come un che di pesante,
fonte d’insidie e di ansie inenarrabili, nonché rischio sempre incombente di peccato.
Il corpo coincide con quelle istanze regressive sempre in agguato e pronte a trascinare
l’umanità nell’abisso ancestrale della natura: il luogo dell’istinto, del passionale,
del bestiale, dello ctonio – in una parola del demoniaco – da cui l’umanità si
era, faticosamente, affrancata. È particolarmente significativo che in una delle
più diffuse e popolari iconografie – presente in quasi tutte le chiese, le cappelle
e le edicole votive – la Vergine Maria sia raffigurata con una veste uranica (il
manto azzurro costellato di stelle d’oro), mentre schiaccia sotto i suoi piedi
un serpente che striscia sul mondo: simbolo della tentazione del peccato e della
già citata regressione. Con una siffatta immagine, un femminile la cui valenza
terrena è stata sublimata nel cielo dell’intelletto e della contemplazione si
pone in antitesi col femminile corporeo, che è tutt’uno con la Terra[27].
In stretta contiguità con lo spirituale-intellettuale,
anche l’amore deve essere liberato da tutto ciò che è terreno, fisico, corporeo.
Il modello da seguire – praticato da mistici, santi ed asceti d’ambo i sessi –
è l’amor dei intellectualis che dallo spazio spirituale dell’anima
si deve dilatare sino ad inglobare l’intero universo, come insegna il caso di
Beatrice innalzata da Dante nel Paradiso ad un rango angelico e utilizzata
come guida nel suo celeste peregrinare nei lidi dove: «Le cose tutte quante/ hanno
ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante»[28].
In tale uranica geografia, lo spirito-pensiero-intelletto diventa – ad un tempo
– il grande veicolo, l’estrema meta e la dimora elettiva per l’uomo che vuol sottrarsi,
con la sua volontà, al peso della carne, alla gravità del corpo: per l’uomo che
vuol negare, in nome della forza dello spirito, quella corporea della Terra. Solo
fidando nello spirito (e nell’intelletto) e affidandosi ad esso si può evitare
la corruzione dei corpi paventata da Innocenzo III e il conseguente annichilimento
della parte migliore dell’uomo. Corruzione e annichilimento che già, per Platone,
coincidevano con la vittoria della doxa (Terra, materia) sull’episteme
(scienza) dello spirito, ma che per i cristiani saranno tutt’uno con la tentazione
di Satana e il predominio del saeculum: ossia con la vittoria del sensibile
sull’intelletto e, per suo tramite, sullo spirito. Come scrive autorevolmente
Tommaso d’Aquino, a causa dei moti degli organi del corpo il demonio può influenzare,
con immagini ingannevoli l’intelletto che – se cede per un deficit di volontà
– cade nel peccato, a meno che il demonio «virtute divina reprimatur»[29].
D’altronde, secondo il dettame del Genesi, la caduta dell’uomo – avvenuta
con Adamo – dalla condizione beata di figlio di Dio a quella di semplice mortale
vede associato il peccato della conoscenza, che rende simili a Dio, alla scoperta
del corpo[30]:
«Colse quindi del frutto, ne mangiò e ne dette anche a suo marito, che con lei
ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi a tutt’e due e videro che erano ignudi»[31].
E
di caduta parleranno anche gli autori del variegato mondo delle sette gnostiche
su cui vale la pena soffermarsi per il loro (per lo più negativo) rapporto con
la dimensione terrena e con la corporeità[32].
I Maestri Gnostici, infatti, leggeranno nella dimensione ilica (o terrena),
la quintessenza della trasgressione nei confronti del Pleroma: ossia la
contrapposizione radicale tra la sfera perfetta del Pleroma (il compiuto
ambito del divino) e quella, imperfetta, della creazione. Creazione che è somigliante
al mare dell’Egitto – spazio oscuro e misterioso delle passioni, della materia,
della peccato e del conflitto – di cui si narra nel Canto dell'apostolo Giuda
Tommaso nella terra degli Indiani, comunemente conosciuto come l'Inno della
Perla[33].
Tale creazione è imputabile all'ultima emanazione (eòne) del Pleroma,
l'androginica Pistis Sophia o Anima Mundi, che in virtù del suo
insano desiderio nei confronti del “Padre primordiale senza principio”[34]
e della gerarchia pleromatica, dà luogo all’articolata opera della creazione.
«Essa» è scritto in un importante testo gnostico «volle che venisse all'esistenza
una realtà a somiglianza della luce esistente fin dall'inizio»[35].
A seguito di questo atto di “terrena” superbia «volle manifestare una immagine
di se stessa senza il volere dello spirito» e «a motivo della potenza invincibile
che è in lei; il suo pensiero non fu inefficace, e da lei si manifestò un'opera
imperfetta»[36].
Siffatta opera imperfetta – di cui Sophia in seguito si pente[37]
– è la creazione che, sostanzialmente, coincide con la divisione del Pleroma
dalle tenebre inferiori, paragonabili alle acque femminili dell’inizio[38].
Essa, come un "sipario", “divide gli uomini che sono in basso da quelli
che sono in alto”[39],
ma consente anche a Sophia di dare forma all'oscuro caos inferiore. È l'atto
fecondante per il cui tramite Sofia illumina le tenebre, la materia, con una scintilla
della luce del Pleroma. E' il seme di Luce che per i Guhysamâja Tantra è sia il seme virile
che la «Chiara Luce della coscienza nirvânica»[40].
E' la Luce che, per i seguaci del Maestro gnostico Valentino è la Vita: «Appunto
perché la Vita manifestò e generò Antropo e Ecclesia, è detta loro luce»[41].
Ma la Luce è occultata nella materia dal Demiurgo, il principe degli “Arconti
di questo mondo”, la potenza negativa (frutto abortivo di Sofia) a cui è demandata,
in prima persona, l'opera creativa. Si presenta – nella variegata simbologia gnostica
– come un drago dal volto di leone e dagli occhi infuocati: il suo nome è Jaldabaoth
o Giovinetto[42]
e nella sua "forza, "ignoranza", "orgoglio" "incoscienza"
e "invidia"[43]
proclama di sé con "borioso vanto"[44]:
«io sono Dio, non esiste altri all'infuori di me»[45]
e «si manifestava come un vento che si muoveva qua e là al di sopra delle acque»[46].
Secondo l'Apocrifo di Giovanni, Jaldabaoth – il Demiurgo che Sofia, improvvisamente,
ha dotato di uno straordinario potere – si unisce poi con l'Aponoia o follia
(la controparte negativa della Ennoia archetipica o pensiero)[47]
e da questa ibrido rapporto prende corpo la creazione irrazionale e caotica del
mondo. Essa si dispiega secondo un racconto sempre più articolato e intessuto
di infinite variabili simboliche, su cui non è il caso di soffermarsi, ma che
mettono in evidenza l’orribile destino di tenebre del mondo, il tremendo carcere
da cui lo gnostico può salvarsi solo riconoscendo la scintilla interiore che lo
rende figlio del Pleroma. Sulle stesse posizioni – che seppur con una abissale
differenza accomunano il neoplatonismo anticorporeo della Grande Chiesa con quello
degli gnostici – si trovano molti gruppi ereticali e molte sette non-conformiste:
tutte concordi nel rifiuto del terreno e, di conseguenza, del corporeo. Sembrerebbe
dunque, definitivamente, sancito – nel nome del cielo, dello spirito e dell’intelletto
(tutte espressioni del maschile-paterno) –
la totale estraneità del corporeo (immagine del femminile-materno), visto come
la quintessenza di ciò che la Terra rappresenta: ossia il negativo della creazione,
l’aberrante lontananza dal divino, il carcere dell’uomo. III. LA POTENZA DELL’ANTICA MADRE.
Conviene ora ripensare questo processo –caratteristico dell’Occidente – secondo
altri parametri culturali. Così facendo, si staglierà meglio – in contro luce
– la dirompente portata di quanto sinora evidenziato e la cui persistente influenza
ancor’oggi si fa sentire. Infatti, l’atteggiamento sprezzatore del corpo e di
tutto ciò che è terreno per molti aspetti – seppur mutato nei modi e nella forma
– è giunto sino a noi. Tuttavia, è altrettanto assodato che non sempre – nella
storia del mondo – lo spirituale-celeste è stato contrapposto, con tale forza
negativa, al terreno-corporeo. Lo provano numerose tradizioni mitico-simboliche
che sostengono l’esatto contrario. Così, nella sacra mitologia egizia il cielo
Nut e la Terra Geb (o Gheb) – entrambi figli di Shu
e di Tefnut, generati con un atto masturbatorio[48]
dal demiurgo solitario Atum-Ra – s’accoppiano tra di loro generando Osiride,
Set e Neftis[49].
Parimenti e specularmente – nel grande atto della creazione – viene contemplato,
esplicitamente e senza alcuna tabuizzazione, l’atto sessuale segno di una indiscussa
fusione fisico-spirituale: «Facendo la vulva, creando il fallo egli [il riferimento
è sempre al demiurgo] inaugurò l’accoppiamento con le giovani donne»[50]. Ma l’analogo
può dirsi anche nei grandi miti di creazione indiani[51],
ad esempio nel Rgveda dove si afferma: «Il cielo è mio padre, il procreatore,
l’ombelico cosmico. Mia madre è l’ampia terra, la mia parente stretta»[52]
oppure – come è scritto nei Kalika-Purana – «La Terra si unisce al cielo
per formare la coppia Cielo-Terra»[53].
Similmente, nei libri sacri cinesi lo ying
(la Terra) e lo yang (il cielo) – i cui corrispondenti giapponesi sono,
rispettivamente, Jikkan e Junishi – rappresentano gli opposti complementari
che, come afferma il Tao, hanno prodotto l’uomo: «Uno ha prodotto due;
due hanno prodotto tre»[54].
Di una coppia primordiale si parla anche nella mitologia greca, dove, secondo
Esiodo: «Gaia per primo generò, simile a sé, Urano stellato, che l’avvolgesse
tutta d’intorno, che fosse ai beati sede sicura per sempre»[55]
e si potrebbe continuare all’infinito, spaziando in tutte le culture ed in tutte
le tradizioni simboliche[56].
Cielo e terra non più separate sono
così, come sostiene il pensiero indiano «le due forme della coscienza umana, quella
mentale e quella fisica»[57],
con il risultato che la Terra, ben lontano dall’essere il luogo depravato della
perdizione, del peccato e dell’apparenza (doxa) assume un carattere di
grande positività in cui sono coinvolti tutti gli esseri: «Questa terra è il miele
per tutti gli esseri e tutti gli esseri sono il miele per questa terra»[58].
Come ovvio effetto di trascinamento ne viene che la corporeità – e la sessualità
che ne è l’espressione più alta e più completa – rappresenta uno straordinario
valore, oltre che un mezzo prezioso per raggiungere l’assoluto: come insegna il
pensiero tantrico. «Artha (la prosperità), kama (il soddisfacimento
dei desideri sensuali), dharma (l’esecuzione dei rituali religiosi e morali
della vita quotidiana, con un’accettazione del peso di tutti i doveri) e moksa
(la liberazione da tutto ciò) sono un’unica realtà»[59].
Ed infatti, nel nome di Kali – la Dea-Madre – e del valore simbolico della
sessualità[60], è possibile
«raggiungere l’illuminazione con gli stessi mezzi che i saggi precedenti cercavano
di bandire dalla loro coscienza»[61].
In un modo “intellettualmente scorretto” rispetto alla tradizione, non si nega
la spiritualità, ma si afferma piuttosto che essa non è rifiuto ma apoteosi del
corporeo, del terreno, del vitale e del materno in una visione di gioiosa totalità:
«Il Tantra non dice: «”Astieniti da ogni godimento, mortifica la carne
e obbedisci ai comandamenti di un Dio-Padre geloso”. Dice invece: “Innalza il
tuo godimento fino al massimo del suo potere, e poi usalo come propellente spirituale”»[62].
Utilizzando il corporeo – a partire
da una dimensione terrena, non gravata da alcuna pesantezza e da nessun senso
del peccato – è possibile raggiungere quella dimensione totale in cui, nell’unione
immediata e concreta del maschile e del femminile e nell’esperienza che ne consegue,
è possibile sperimentare concretamente quell’unità mistica altrimenti patrimonio
della dimensione celeste[63].
Va da sé che tutto ciò, se comporta un’inversione della temporalità – passando
da una dimensione temporale fissata nel presente ad una fissata nell’intemporalità[64]
– importa anche il collocarsi materialmente nella dimensione della totalità. Affermando
gli aspetti più evidentemente corporei – quali sensibilità, emotività, istintualità
– ci si situa, certamente (e anche pericolosamente), nell’ambito e nella zona
d’influenza del femminile: di una totalità determinata dalla Grande Madre per
l’appunto. Così, se questo aspetto può considerarsi come uno stadio primordiale
dello sviluppo umano, si può anche ipotizzare che sia una possibilità sempre incombente
e ricorrente. Ossia che l’uomo possa – in questo caso regressivamente – ritornare
in una dimensione dove la piena simpateticità con il tutto, lo rende da esso completamente
dipendente: come rinserrato in un cerchio impenetrabile. Questo cerchio coincide
con il corpo della Terra, considerata divinità universale, viva femminile ed animata.
Come scrive il grande alchimista Basilio Valentino: «La Terra non è un corpo morto,
ma in essa dimora uno spirito che ne è la vita e l’anima»[65].
Tale idea, grandiosa, si è mantenuta inalterata – malgrado tutto – sino ai giorni
nostri, come testimonia lo scienziato cibernetico Jim E. Lovelock che, a proposito di Gaia,
la Terra, scrive: «Il risultato di questo approccio unidirezionale fu lo sviluppo
dell’ipotesi secondo cui l’intera gamma della materia vivente sulla Terra, dalle
balene ai virus e dalle querce alle alghe, poteva essere considerata come costituente
una singola entità vivente, capace di manipolare l’atmosfera terrestre per le
proprie necessità globali e dotata di facoltà e poteri superiori di molto a quelli
dei suoi singoli costituenti»[66].
La dimensione della Terra come vivente
si presenta – a sua volta ed in una prospettiva ontogenetica – come l’espressione
di uno stadio indifferenziato dell’inconscio dell’umanità ed è stato raffigurata,
simbolicamente, nell’icona dall’uroboro: il serpente androginico che si
morde la coda e in cui il maschile e il femminile sono tra loro intercambiabili,
pur presentando una netta dominante femminile. La sua immagine è stato utilizzata
dall’antico sapere geroglifico e gnostico per esprimere la totalità e l’infinità[67].
Ma è stato utilizzato anche per esprimere la totalità dell’inconscio indifferenziato
a tonalità femminile. È quella dimensione
psichica totale che imprigiona l’uomo che non ha ancora conseguito quel livello
di coscienza che lo porta a distanziarsi dalla totalità inconscia e vischiosa,
tipica dell’inconscio-femminile primordiale[68].
Tale dimensione indifferenziata presentava – come si è detto – una dominanza femminile:
una dominanza a carattere ctonio e materno. Su tale dominanza è possibile avanzare
varie ipotesi. Potrebbe essere sia la testimonianza ontopsicologica (ed inconscia)
di un’antica dipendenza del maschile dal femminile, come vuole Bachofen[69]
oppure potrebbe rimandare ad una origine biologica dell’uomo dalla donna, come
vogliono – da un punto di vista strettamente genetico, anche se forse fanta-scientifico
– alcuni studiosi inglesi. Potrebbe radicarsi anche nel rapporto analogico-archetipico
tra la donna e la Terra, così come prendere le mosse dalla convinzione che la
donna generi in conseguenza di un contatto con un animale o un oggetto oppure
in virtù dell’inserimento dei bambini nel grembo materno ad opera dello spirito
di un parente morto: di un antenato[70]. Tuttavia, se appare innegabile dalle
testimonianze mitiche, linguistiche e storiche che la discendenza originaria dell’uomo
è matrilineare, cioè femminile e materna[71],
altrettanto innegabile è che l’inconscio – la totalità psichica primordiale –
ha un suo oggettivo riscontro nell’essere il femminile e il materno la forma stessa
della psiche. Come ricorda Jung: «La psiche appartiene a ciò che nel mistero della
vita c’è di più intimo; e come ogni organismo vivente possiede una sua struttura
e forma particolare, così è per la psiche. Se la struttura psichica e i suoi elementi,
gli archetipi, abbiano avuto un’origine, è questione che concerne la metafisica
e alla quale non possiamo pertanto rispondere. La struttura è ciò che da sempre
si trova, ciò che già c’era, la condizione preliminare di ogni singolo caso. È
la “madre”, la “forma” in cui è compreso tutto il vissuto»[72].
Il che trova una conferma iconografica nella rappresentazione – già nell’età della
pietra – delle dee materne Veneri e Madri concepite come “Grandi Madri”[73]:
come quelle di Willendorf, di Lespugne, di Malta e di altre località ancora. Non
a caso – a testimoniare l’importanza dell’iconologia del femminile – delle scarse
testimonianze scultoree che dal neolitico sono giunte a noi, 55 sono sculture
femminili e solo 5 maschili e queste ultime sono atipiche e malfatte: non cultuali,
insomma[74].
Inoltre, in tutte le immagini del femminili prevale una tipologia iconica che
non trova un riferimento nei ritrovamenti di scheletri femminili dell’epoca e
che rivela come queste figure, ben lungi dal voler rappresentare la realtà fisiologica,
sottolineano piuttosto un rilevante valore simbolico. Infatti, in tutte emerge
un preponderante e prepotente carattere di totalità: presentano una dimensione
tondeggiante ed acefalica, in cui il corpo è inclinato verso il centro, spesso
tendente a far corpo unico di seni, ventre, natiche e pube[75].
Il corpo tende, insomma, a diventare una cosa sola nel trionfo della nascita,
della sessualità e della fertilità: nella perfetta e consustanziale identificazione,
insomma, del corporeo con la fertilità e la potenza generatrice della Terra illuminate
dalla luce della divinità. Questa Terra-corpo universale, la cui
grandezza, staticità ed imponenza – unitamente al carattere di contenitore totale
– rimandano sia al vaso (il pithos che contiene tutto ciò che è necessario
alla vita, compreso l’accoglimento del nascituro, e ciò che, come sepolcro, è
necessario alla morte[76])
che al trono: «La Grande Madre, seduta, è la forma originaria della dea troneggiante
e quindi del trono stesso»[77].
Ma il trono, a sua volta, rimanda alla montagna che – in una perfetta circolarità
– è uguale al trono: «In origine al posto del trono stava la montagna, che fonde
in sé i simboli della Terra, della caverna e dell’altezza, divinità immobile e
sedentaria, che domina in modo visibile il territorio. La montagna[78]
è, anzitutto, la divinità luminosa, come madre montagna, poi diviene il seggio
e il trono, su cui siede il nume visibile o invisibile, poi ancora il “trono vuoto”,
su cui “discende” la divinità[79].
Sinonimo della madre-trono-Terra-montagna-femminile è l’espressione – tutt’ora
comunemente usata – “salire al trono” che mostra come nel corpo della Terra-donna
si sedimenti il concetto stesso di forza, di potere e di sacralità. La sacralità della Terra-corpo materno si manifesta nel suo essere il luogo
che tutto contiene e tutto nutre, che tutto accoglie e che tutto respinge, datore
supremo di vita e morte, luogo particolare dove ogni cosa assume un significato.
Come scrive Neumann: «La Madre Terra ci appare come l’unità del grembo oscuro
e fecondo nella sfera psichica dell’umanità, l’Uroboro materno, la prima materia,
che rappresenta e suscita il caos animato di una presenza che al tempo stesso
divora e genera»[80].
È indubbio che questa totalità sacrale ed inconscia – in cui l’uomo dei primordi
si trova a vivere una completa e totale esistenza – fa sì che nel comune nome
della Terra-Madre ogni cosa (uomo compreso) sia una parte, interscambiabile con
un tutto indifferenziato. Ne viene che l’uomo primordiale non può vantare una
sua specifica identità, ossia non mostra un livello sviluppato di coscienza, ma
piuttosto solo uno stato embrionale all’interno di una indifferenziata “partecipazione
mistica”[81].
«Non esiste ancora» nota Neumann «alcun Io riflettente, cioè cosciente di sé,
capace di mettere qualcosa in relazione a se stesso, cioè di riflettere. Lo psichico
non è solo aperto al mondo, bensì ancora identico con esso e indistinto da esso,
si riconosce ancora come mondo e nel mondo, sperimenta ancora il proprio divenire
come divenire del mondo, le sue proprie immagini come un cielo stellato e i suoi
propri contenuti come divinità creatrici del mondo»[82].
Il primitivo vive, perciò, in una dimensione mistico/partecipativa all’interno
dell’inconscio collettivo che tutto contiene e tutto in se esaurisce, in una perfetta
circolarità. È quella circolarità che si è già vista espressa simbolicamente dall’uroboro,
assunto a cifra stessa della totalità materna: «In quanto vivente che ruota intorno
a se stesso, esso è il serpente circolare, il drago originario degli inizi che
si morde la coda, l’uroboros autogenerante . È un antico simbolo egiziano di cui
è detto: Draco interfecit se ipsum, maritat se ipsum, impraegnat se ipsum»[83].
In siffatta totalità mistico/partecipativa, l’individualità del singolo
uomo – annullata nella sfera dell’indifferenziato materno, rappresentato dall’inconscio
– si manifesta nella percezione di essere e di sentirsi gli unici figli di un’unica
madre che coincide con il tutto: una totalità tutta sbilanciata sul materno. È
questo tutto che fornisce l’identità al singolo, come dimostrano ampiamente i
vari trattati di etnologia e l’esperienza di osservatori e viaggiatori. Ma è questa
appartenenza bonaria e sanguinaria ad un tempo – segno di una identificazione
archetipica – che motiva sia la vita che gli atteggiamenti degli uomini. In un
siffatto quadro, la divinizzazione dell’uomo (se vogliamo l’anelito spirituale
che lo differenzia dal puro mondo istintuale degli animali) – la sua spiritualità
– coincide con il fondersi con il tutto: un tutto che, pur rivelando anche connotazioni
mitiche e simboliche d’impronta maschile, nella sostanza ha un potente carattere
femminile. In tale contesto, l’uomo deve identificarsi con l’eterno ritorno dell’identico
che è tutt’uno con la natura: con la vita, la morte e la rinascita, ossia con
la Terra-madre-natura. Deve farsi uroboro e collocarsi – per avere un senso
– all’interno del ciclo del giorno, della natura, del sole, della luna e del ciclo
mestruale femminile. Ciclo che, per millenni, è stato per l’uomo il tremendo ed
inquietante mistero della superiorità e pericolosità femminile: quella del fluire
corporeo del sangue che nell’uomo è datore di morte, ma per la donna è datore
di vita[84].
Superiorità femminile che coincide ancora con il trionfo della corporeità, a sua
volta estensione dell’inconscio. È rilevante notare come nel mondo indiano – il cui sviluppo religioso e
sociale sarà profondamente diverso da quello dell’Occidente – la priorità del
femminile-materno (e con esso del corporeo) è presente sin dall’epoca preistorica
e pre-aria e sarà, poi, accettata nell’universo maschile indo-ario sino a ritornare
alla luce, in tutta la sua potenza, sotto forma di culto della Grande Madre nel
periodo medioevale indiano[85].
Tuttavia, prima del suo ritorno sulla scena mitica del medioevo indiano, il femminile-materno
in qualità di paredra rappresenta come Sakti (la figura della consorte)
la potenza stessa di Siva, senza il quale egli non ha potere, è morto.
Anzi il femminile-materno-corpo-Terra è indispensabile al Dio per la realizzazione
del mondo e senza di essa perde le stesse sue caratteristiche divine e creatrici[86].
Cosa questa che è detta espressamente nel Bramavaivarta Purana, dove Siva
si rivolge a Durga (Parvati): «Io, signore di tutte le cose, sono un cadavere
senza di te»[87].
Ed è interessante notare – cosa questa che non mancano di sottolineare i più accreditati
studiosi del pensiero indiano, come ad esempio Doniger o Danielou[88]
– che l’aspetto creativo del Dio Siva, dio itifallico del piacere e dell’ascesi,
possiede in sé una sviluppata dimensione psicologica femminile. D’altronde «La
trasformazione del maschio nella femmina è oggetto di molte leggende puraniche»[89],
così come è noto dall’iconografia indiana che il lingam (fallo) s’innalza
dalla yoni, l’organo sessuale femminile, formando un tutto indiscernibile.
E questo sarà a lungo il destino dell’uomo, sempre comunque segnato dalla totalità,
rappresentata – visibilmente nel maschile ma con eguale (se non superiore) potenza
nel femminile – dalla congiunzione degli opposti, simboleggiata materialmente
dalla divina unione dei corpi: «L’unione dell’Uomo cosmico e della Natura (prakriti)
è rappresentata dalla copulazione (maithuna) del Signore del sonno (Siva) con
Fedeltà (Stati), cioè l’Energia (Sakti)»[90].
Naturalmente questo non impedisce si che si possa costruire l’idea di una totalità
altra che trascenda entrambi – sia il maschile che il femminile – e cui si può
comunque pervenire seguendo la via della mano destra (più spiritualizzata, più
celeste) o quella della mano sinistra (più corporea, materiale, terrena), senza
per questo svalutare l’una nei confronti dell’altra. È la via del Nirvana
in cui tutto sembra spiritualizzarsi, ma in cui in realtà nulla si spiritualizza.
Piuttosto si materializza lo spirito in una dimensione altra e viceversa. La si
può intendere come una sorta di trasfigurazione del fisico e dello spirituale
nell’immagine della Luce bianca, vibrante e pulsante in cui tutto converge: come
vuole il Bar do t’os sgrol o
Libro Tibetano dei Morti[91].
Sarà questo il carattere dell’Oriente e il marchio perspicuo del suo sviluppo,
lontano ed estraneo da quello occidentale. IV. L’ETA’ DEL PADRE. Nell’Occidente – come si è già ricordato
in precedenza mostrando la forza di tutto ciò che è celeste e spirituale contrapposto
al terreno-corporeo – diverso è stato il modello storico di sviluppo. Fatte queste
premesse è il caso di riprendere il cammino a partire da quel mutamento radicale
che è coinciso con la volontà di non convivere più con un modello in cui fosse
presente, esclusivamente, una totalità in cui il femminile (e le sue forme archetipiche)
era se non decisiva quantomeno rilevante o sullo stesso piano del maschile. La
totalità deve, insomma, diventare d’esclusiva pertinenza del maschile, ossia del
pensiero, dello spirituale, dell’uranico. Si potrebbe azzardare – utilizzando
stilemi di pensiero d’impronta positivistica – che la stessa articolazione della
complessità dell’inconscio abbia richiesto questo mutamento, questa progressiva
diversificazione. Abbia richiesto di sottrarsi alla potenza e alla forza della
Terra che – nell’eterno, ciclico e ritualizzato divenire della corporeità – sembrava
tutto appiattire e tutto rendere ripetitivo. In ciò si è manifestata la paura
inconscia che la ripetizione (la ritualizzazione, appunto) rendesse la vita dell’uomo
troppo simile a quella animale, rinforzando – come nota acutamente Portmann –
il timore (o meglio il terrore) che considerava «il rito come un qualcosa di arcaico,
primordiale, un ‘residuo animale’ nell’uomo»[92].
O piuttosto era l’indice dell’ansia nevrotica di negare l’inconscio – individuale
e collettivo – che rimandava, con la sua forza istintiva, pulsionale ed emozionale,
al mondo animale da cui l’uomo a fatica si era emancipato e in cui, costantemente,
temeva di ripiombare. Sottrarsi alla ripetizione, al rito e al corporeo – ossia
all’animalità – equivaleva a sottrarsi alla Terra, trovando una specificità che,
polarmente, si situava all’opposto di ciò che sta a Terra: sulla Terra. Equivaleva
a trovare qualcosa che – al pari del fallo – s’innalzasse verso il cielo e che
creasse in forma diversa da come genera, materialmente, la Terra, la natura. Era
la scoperta di un qualcosa che, orgogliosamente, dava la vita. Era un che di eternamente
nuovo, che non soggiaceva a nessun ciclo, che non era debitore di nessun rito,
ma viveva di una specificità sempre nuova e sempre diversa, lontana da ogni pesantezza
corporea. Nasce, così, il pensiero che crea diversificando, differenziando e dividendo:
in opposizione alla Terra che unisce e assembla. Ma, soprattutto, aveva preso forma
e consistenza l’esistenza di un soggetto individuo in grado di pensarsi come singolo
e, come tale, in grado di non dipendere da nessuno e tanto meno da chi l’aveva
generato: che fosse padre o madre, in fondo poco importava. Era il tentativo di
costruire una personalità assolutamente autonoma che, nella figura maschile e
paterna, sancisse la superiorità del pensiero sulla natura e, di conseguenza,
sul corporeo. Questo, più che non il differenziarsi delle funzioni sociali nella
collettività – come ad esempio un diverso ruolo del maschile rispetto al femminile
– è stato all’origine della rivoluzione epocale che ha portato al primato del
conscio. Staccarsi dalla ripetitività, rifiutare ogni forma di partecipazione
mistica, sviluppare la dimensione del comprendere e del pensare: questo è ciò
che stato alla base della nascita della figura simbolica del padre, fondando,
in essa e con essa, l’assoluta priorità del maschio: di colui che genera nello
spirito, di colui che crea nel pensiero. È la priorità del pensiero sulla forza,
dello spirito sul corporeo e quindi sul femminile che rende forza, corporeo e
femminile pericolosi oggetti di seduzione e di regressione, in cui è difficile
distinguere se è il desiderio della regressione a generare la seduzione o è la
seduzione che porta con sé la regressione. In questo contesto, il padre non può
dimorare sulla Terra. In quanto pensiero creativo non può essere associato alla
pura materialità. Il suo pensiero è vita e creazione ossia – platonicamente –
episteme, ma tale vita e creazione è, puramente ed unicamente, spirituale.
Per questo, persino il liquido seminale viene elevato a dimensione spirituale
e simboleggiato in un raggio di luce che, in molti quadri, penetra l’orecchio
della Vergine Maria, rendendola gravida[93].
Ma questa non è creazione concreta, anche se il Bambino Gesù nella forma di un
bambinello nudo dotato di croce scorre sul raggio verso la Madonna che gli darà
la vita[94]:
è creazione spirituale, è creazione astratta. Parimenti, il padre che è l’espressione
del pensiero creativo rappresenta la legge, il nomos, contro la legge della
natura, a sua volta espressione delle leggi non scritte che rimandano al terreno
e al femminile. Esemplarmente, in Antigone – la celebre tragedia di Sofocle
– la protagonista, figlia di Edipo, si scontra con Creonte, re di Tebe, e con
le sue leggi scritte al fine di dare sepoltura al fratello Polinice, in nome delle
leggi non scritte che rimandano alla passione e al sentimento: alle leggi del
sangue, del materno e del femminile esiliato. Il sovrano di Tebe – figura paterna
e maschile per eccellenza – è, invece, il concetto astratto, spirituale e maschile
e rappresenta una volontà, una norma morale e legale, non la realtà profonda dell’anima
che è impersonata da Antigone. Coincide con quel concetto Super-egale che – come
norma – diventa il modello dell’Io e a cui Freud associa la paternità ed è qualcosa
di totalmente astratto, nella sua concretezza psicologica e sociale. «Il Super-io»
scrive Freud «conserverà il carattere del padre, e quanto più forte è stato il
complesso edipico, quanto più rapidamente (sotto l’influenza dell’autorità, dell’insegnamento
religioso, dell’istruzione, della lettura) si è compiuta la sua rimozione, tanto
più severo si farà in seguito il Super-io nell’esercitare il suo dominio sull’Io
sotto forma di coscienza morale, o forse di inconscio senso di colpa»[95]. La figura
simbolica del padre Super-egale assume così un carattere che travalica ogni forma
d’immediatezza e diventa società, potere, intelligenza e totalità, dominando per
tutta la vita l’Io: «Benché rimanga accessibile a tutte le influenze successive,
il Super-io serba per tutta la vita il carattere che gli è conferito dal fatto
di trarre origine dal complesso paterno, serba cioè la capacità di contrapporsi
all’Io e di dominarlo. Il Super-io sta a perpetua testimonianza della primitiva
debolezza e dipendenza dell’Io, e mantiene il suo imperio anche sull’Io maturo»[96].
È il trionfo del pensiero che come paterno si contrappone al materno e al corporeo:
al Blut und Boden[97],
per usare di una terminologia più “tragicamente” moderna. Come mostrerà la storia dell’Occidente,
prende forma un’immagine di totalità tutta sbilanciata, questa volta, al maschile.
Non a caso il padre prende dimora nel cielo e, con una radicale inversione, si
presenta come il creatore del tutto: compresa la Terra. La sua creazione – lo
insegna il Dio dell’Antico Testamento – nulla ha a che fare con
la materia. In prima istanza, è un fiat, una parola che segue ad un atto
di volontà e che genera il mondo dal nulla[98],
così come darà vita al corpo dell’uomo – Adamo – che è fatto di Terra, anzi di
fango cui si aggiunge il soffio dello spirito[99].
Senza questo soffio vitale, il corpo sarebbe quello che le leggende ebraico-cabalistiche
chiamano Golem[100]:
un indistinto (in ebraico Golem significa informe e nell’uso yiddish
equivale a zombie) grumo di Terra senza possibilità di vita. In questo
contesto – e in maniera del tutto conseguente – il femminile, nella creazione,
passa in secondo piano, deriva dall’uomo, al pari di tutto quanto è creato, anzi
deriva da una sua costola: «E il Signore Iddio dalla costola tolta ad Adamo formò
una donna e la condusse da Adamo»[101].
Il dio-maschio-spirito – il cui prototipo esemplare è il Dio Vetero Testamentario
– crea dunque utilizzando non la materia, ma lo spirito ed inoltre assume come
propria specificità la forma logica della determinazione e della differenziazione,
nulla lasciando al caso, all’immediatezza e all’emotività. Per questo – nel Genesi
– gli atti creativi conseguenti al fiat originale sono suddivisi per giornate
e, in ogni giornata, ha luogo una creazione specifica e particolare differente
dalle altre, in cui ogni cosa è separata dal tutto indifferenziato: prima fra
tutte la luce dalle tenebre[102]. Lontano
dall’indifferenziato – metafora dell’inconscio – e dalla materia-femminile (che
sono, poi, una cosa sola), tutto il creato è frutto dell’intelletto divino, fonte
e fondamento di ogni creatura. Come dice Ambrogio nel suo commento alla creazione:
«unicamente l’intelletto divino contiene in sé la realtà e le cause delle cose
visibili e invisibili»[103].
A voler ben vedere, questo nuovo principio – del tutto spirituale – ha un rilevante
antecedente storico nell’Antico Egitto, ove prende le mosse una sorta di antenato
di Yhwh: l’antenato, in assoluto, più importante. Si tratta di Aton,
il dio inconoscibile delle origini che – raffigurato nel sole splendente ed ancora
legato all’antico culto solare – tutto crea e a tutto provvede. «Tu» si dice tra
l’altro nel celebre Inno a Aton «hai creato la terra a tuo desiderio,
quando tu eri solo»[104].
Tuttavia in Aton – ed in questo
si situa la differenza perspicua con Yhwh – l’intera opera della creazione
è dedicata e funzionale ad una sola ed unica persona rappresentata dal faraone
e da nessun altro[105].
Non corrisponde, insomma, ad uno stato collettivo di sviluppo della coscienza,
piuttosto rimanda a quel Grande Individuo di cui scrive Neumann e che rappresenta
– in maniera esclusivamente individuale anche se prototipica – il raccordo tra
il singolo Io e il Sé: ossia il divino nella forma cosciente e compiuta del Sacro[106].
«Nel Grande Individuo,» scrive Neumann «che è contemporaneamente il Sé del gruppo
e il Sé inconscio di ciascun membro, essi [in questo caso, gli egizi] sperimentano
in maniera archetipica la totalità psichica inconscia del collettivo»[107]. In entrambi i casi – ossia in quello
del faraone e in quellodi Yhwh – è ancora però presente una potente componente
conio-uroborica-inconscia che si manifesta nei rapporti con le altre divinità
dei Pantheon locali o preesistenti (come nel caso delle tollerate divinità
egizie) oppure negli atteggiamenti talora regressivi assunti da Yhwh nei
confronti di singole persone o del suo stesso popolo. Atteggiamenti che, per molti
aspetti, mostrano come nel dio unico, assoluto ed uranico d’Israele «il ruach
Yhwh si muta in una possessione negativa, diventa un cattivo demone»[108].
D’altronde, scrive Jung in quel saggio fondamentale che è Risposta a Giobbe:
«Come tutti gli antichi dei anche Yahwèh ha la sua simbologia animale innegabilmente
vicina alle molto più antiche figure teriomorfiche delle divinità egizie, particolarmente
quella di Hor e dei suoi quattro figli. Dei quattro animalia di Yahwèh
solo uno ha un volto umano. Si tratta di Satana»[109]. Come è facilmente
comprensibile, questo atteggiamento significa – come si verifica nella vexata
questio di Giobbe, analizzata da Jung – che «Il comportamento di Yahwèh nei
confronti delle sue creature contraddice a tutte le esigenze della cosiddetta
“ragione” divina, il cui possesso dovrebbe differenziare l’uomo dall’animale»[110].
Yhwh si comporterebbe, insomma,
con Giobbe in maniera del tutto incomprensibile rispetto alla standard
coscienziale che avrebbe dovuto raggiungere, dando invece l’idea di una profonda
e radicale insicurezza di sé che lo rende, caratterialmente, simile «ad una personalità
la quale riesce a procurarsi la sensazione della propria esistenza soltanto in
virtù di un oggetto esterno ad essa»[111].
Il suo conclamato carattere “totale” sarebbe, perciò, segnato da una profonda
dimensione antinomica[112]
che caratterizza la percezione di se stesso. Tale dimensione antinomica ed oscillante
– rendendolo ora generoso e giusto, ora crudele e mentitore[113]
– lo proietta in un mondo regressivo ed irrazionale in cui è indispensabile manifestare,
nei comportamenti, la proprio assoluta potenza, al pari della Grande Madre uroborica,
per percepirsi, indiscutibilmente” come assoluto. Il che se, per un aspetto, lo
rende sostanzialmente “malato” d’insicurezza[114],
per un altro lo conferma – con un atto narcisistico di autostima[115]
– sempre come un dio maschile, spirituale ed uranico. Anche in questo caso, il
superamento dell’atteggiamento regressivo del Dio Vetero Testamentario avviene
tramite una presa di posizione maschile, rispetto ad una sorta di attrazione verso
il carattere psicologico del femminile. Così Giobbe – in virtù del costante parallelismo
che lega l’uomo al divino e cui, magistralmente, fa riferimento Thomas Mann[116]
– «individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza
personale raggiunge essa stessa una numinosità divina»[117].
Il che costringe Dio a rinnovarsi totalmente[118],
assumendo sempre più il connotato di una forza maschile uranica che progressivamente
tende ad occupare tutti gli spazi con una netta predominanza di tutto quanto è
spirituale rispetto a tutto ciò che è materiale e terreno (e femminile), che in
lui tuttavia è sempre presente. In questa direzione prende corpo e si afferma,
a livello teologico, tutta una simbologia uranica in netta opposizione a quella
materno-tellurica-femminile che viene tendenzialmente associata al regressivo
e al negativo. La ricaduta sarà tutta sul corporeo e sulla sessualità (quindi
sull’unione dello ctonio con il femminile-materno) come già, aveva mostrato, esemplarmente,
l’associazione serpente-sessualità-demonico nella cacciata dal paradiso terrestre
dove Adamo ed Eva – dopo il durissimo scontro con Dio – si scoprono nudi e ne
provano vergogna, coprendosi[119]. Come
è noto – cosa per altro già rilevato nel capitolo iniziale – questa linea tipica
della cultura antico-giudaica si fonderà con quella
greco-romana di derivazione platonica .dando vita a quella che sarà la
tradizione cristiana (e non solo cristiana) dell’Occidente ed incidendo prepotentemente
sulla sfera conoscitiva e comportamentale dell’uomo che vive in sé il mito religioso
e i suoi contenuti IV. LA POTENZA DEL SACRO. Tuttavia, l’assoluta priorità del
maschile-divino-conscio-spirituale – oggettivatasi nella forma del Dio unico uranico
e creatore – se spazza via ogni residua presenza del vecchio mondo materno-uroborico
non rompe, completamente, con la dimensione inconscia che ne era all’origine.
Si assiste, infatti, proprio nel momento della vittoria dello spirituale-uranico-maschile-paterno
al tentativo enatiodromico[120]
di una compensazione di ciò che viene eliminato. Il maschile, dunque, sviluppa
la “tentazione” ad armonizzarsi – senza squilibri – con l’inconscio femminile
e con ciò che esso rappresenta, cercando di costituire una dimensione equilibrata
ed armonica che si presenta come una forma di totalità. Un esempio di totalità, in questa direzione,
è data dalla figura del Cristo che rappresenta il Sé, ossia la “totalità psichica
dell’uomo”[121],
in quanto tale, identifica la compiuta e perfetta sintesi tra il maschile ed il
femminile. Come scrive, ancora, Jung: «Il corpo mistico di Cristo abbraccia anche
i due sessi rappresentati dal pane e dal vino, in modo che le due sostanze (maschile
il vino, femminile il pane) significano l’androginia del Cristo mistico»[122].
L’analogo si può dire per il corporeo e lo spirituale che – nell’immagine simbolica
del Cristo – si conciliano nella duplice natura che gli è propria e che lo fa
partecipare, in quanto Figlio di Dio, al regno dello spirito e come Figlio dell’Uomo
a quello umano e terreno. Ne rendono piena testimonianza i Vangeli apocrifi
e gnostici in cui è centrale tanto la figura di Maria[123]quanto,
soprattutto, quella di Maddalena di cui
è detto: «Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli, e spesso
la baciava sulla bocca»[124].
È la conferma del superamento del netto stacco tra il maschile e il femminile
– che costituiva (e costituisce) l’asse portante del cristianesimo – in nome di
un’armonica integrazione tra la Terra ed il cielo, tra maschile e femminile. Lo
prova, ancora, l’atteggiamento saggio e disteso nei confronti della carne non
più demonizzata – «Non avere paura della carne, e non amarla. Se tu ne hai paura,
essa ti dominerà. Se tu l’ami, essa ti divorerà e ti inghiottirà»[125]
– così come del matrimonio: «Grande è il mistero del matrimonio!. Senza di esso
non ci sarebbe il mondo, giacché gli uomini sono consolidamento del mondo,
e il mondo è il consolidamento degli uomini»[126].
Sono atteggiamento questi – tipici della gnosi valentiniana – che in netta controtendenza rispetto alla tradizione
giudaico-greco-cristiana proclamano la centralità, in Cristo, dell’unione sessuale
con il femminile, che rappresenta l’altra metà del maschile e non il suo aspetto
regressivo: «Se la donna non si fosse separata dall’uomo, non sarebbe morta con
l’uomo: all’origine della morte ci fu la sua separazione. Perciò il Cristo è venuto
a porre riparo alla separazione che ebbe inizio fin dal principio, e a unire nuovamente
i due, a vivificare coloro che erano morti a motivo della separazione. Ma la donna
si unisce con suo marito sul letto nuziale: e coloro che sono uniti sul letto
nuziale, non si possono più separare»[127]. Tale
centralità del corpo e dell’unione fisica si manifesta con chiarezza nella via
gnostica che si potrebbe definire “della mano sinistra”. In essa, la corporeità
nella sua manifestazione sessuale, anche estrema, diventano il tramite indispensabile
per raggiungere – nel disprezzo delle fuorvianti regole mondane e nel faticoso
processo di risalita – una via d’accesso privilegiata verso il Pleroma.
Come nota Filoramo – a proposito di Epifanio
che condanna alcune pratiche gnostiche, di tipo orgiastico, incentrate sull’utilizzo
del seme – secondo gli gnostici (alcuni gruppi, certo): «La semenza umana trasmette
quella divina»[128].
Il che significa che il libertinismo gnostico non è un problema banalmente erotico
o semplicemente trasgressivo – come hanno sempre sottolineato i detrattori della
Gnosi appartenenti alla Grande Chiesa – ma prettamente simbolico[129], anche se,
al fondo, velato d’ingenuità. È la convinzione che tramite la sessualità – esempio
visibile e concreto di una totale compenetrazione degli opposti, di una mistica
complexio oppositorum –
sia possibile liberare l’anima dal giogo mondano della parzialità e dell’inganno,
restituendola al posto che le compete. Va da sé – ed in ciò risiede l’ingenuità
gnostica – che nel privilegiare la sessualità le veniva attribuita una forza infrattiva
nei confronti della legge del mondo e quindi del vizio demiurgico della creazione.
Tuttavia, in quest’ingenuità si celava la verità rappresentata dalla volontà delle
potenze mondane di reprimere tutto quanto non era riconducibile ad una visione
strettamente spiritualista della vita e, conseguentemente, della società. Per
questo la Gnosi è stata combattuta ed estirpata, mentre il nascente cristianesimo
– come già ricordato – si colloca, apertamente, sulla strada del neoplatonismo
e della filosofia greca in cui il corpo se vuol essere una propaggine, seppur
secondaria, dello spirito deve tendere a perdere la pesantezza della materia:
deve spiritualizzarsi abbandonando la Terra. Lo “spiritualismo” ha, dunque, storicamente
trionfato su ogni altra diversa tendenza, piegando la corporeità e quindi la Terra
alla superiorità del cielo. Qualche residuo della corporeità – di questa potente
forza che si radica nell’inconscio – è destinata, però, a perdurare per tutta
l’epoca barbarica e per gran parte del medioevo testimoniando, nel Sacro, la forza
della totalità. Lo comprovano, ad esempio, la venerazione per i corpi santi e
la stessa carnalità della vita quotidiana. Nel primo caso, il culto – quasi
ossessivo delle reliquie – rivela l’attribuzione al corpo, seppur spiritualizzato
dalla santità, di una inaudita capacità taumaturgica e salvifica che si oggettiva
nella vicinanza fisica con il corpo morto o con oggetti che gli sono venuti in
contatto. Nel secondo caso, la corporeità – vuoi come sessualità, vuoi
come fame, vuoi come desiderio di colpire – viene concepita come il rifugio-risposta
ad una quotidianità tremenda ed impietosa. Ne abbiamo una evidente riprova nella
letteratura medioevale – dal Decamerone ai Racconti di Canterbury,
alle fiabe popolari, ai sogni alimentari del paese di cuccagna – e nella violenza
fisica istituzionalizzata dagli Ordini dei Monaci Combattenti e dalla Cavalleria.
In questi ultimi, particolarmente, la corporeità è esibita, alimentata, combattuta
o distrutta in tutti i suoi possibili aspetti materiali: in un trionfo del terreno[130].
Se poi si ha la ventura (e la curiosità) di scorrere quel vero e proprio monumento
storico, sociale e teologico che è la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine
o i racconti meravigliosi dei viaggiatori, è facile scoprire – al fondo dell’immaginario
e del fiabesco – l’ansia edenica di una corporeità forte, rinnovata e vivente.
È il caso della celebre fontana dell’eterna giovinezza sognata, ricercata e descritta
da avventurosi viandanti e da visionari scrittori: tutti alla ricerca della possibilità
di un rinnovamento corporeo che è, nel contempo, la scoperta di una piena e realizzata
totalità[131].
Ma la corporeità e la materialità è presente, con forza e rilevanza – anche se
nel contesto di una sua spiritualizzazione – nel caso di San Francesco. Basta
pensare con quali accenti, poetici – ma carnalmente concreti – si rivolge alla
Terra:«Laudato si’ mi’ Signore, per sora nostra madre terra, la quale ne sustenta
et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba»[132].
Ma giunge, incredibilmente,ad essere presente pure nella riflessione di San Tommaso
che – a proposito del corpo – s’esprime in questi termini: «Sebbene il nostro
corpo non possa godere di Dio con la conoscenza e con l’amore, tuttavia possiamo
arrivare alla perfetta fruizione di Dio con opere compiute col corpo»[133].
È un fatto curioso – anche se scarsamente noto – che San Tommaso, senza falsi
pudori: «confidava ai suoi discepoli che talvolta, nel momento in cui più intensa
era la sua meditazione delle cose divine, il suo corpo reagiva con la polluzione»[134]. Ma l’analogo
avveniva per San Bonaventura, Santa Teresa e San Giovanni della Croce, quasi a
significare che anche il corpo – tramite la sessualità – poteva partecipare alle
mistiche gioie dello spirito[135].
Naturalmente accanto a questa presenza
della corporeità – e traslatamente della Terra – ci sono atteggiamenti fortemente
oppositivi come il già citato Innocenzo III e il rigorismo ascetico presente,
soprattutto, in una dovizia di mistici cristiano medioevali[136].
In tutti questi casi, sorge però il sospetto che, nascosto dalla repulsione verso
la corporeità – metaforizzata nel cibo, nel sesso e nella donna – si nasconda
la rimozione di un disagio ben più profondo, ignoto ad un grande mistico come
San Francesco. È il disagio che sorge da un arroccamento prima sconosciuto e che
si tramuta in atteggiamenti crudamente difensivi. Sembra quasi che la nuova realtà
sociale che si sta dispiegando possa, in qualche modo, mettere in dubbio certezze
acquisite ed una fede nella totalità in passato graniticamente incrollabile. Significativo
è il caso della stregoneria ed il mutamento di comportamento da parte della Chiesa
nei suoi confronti. Nel IX-X secolo, Reginone di Prümm – in un canone sinodale
diventato famoso perché ripreso nei Decreta di Burcardo di Worms (XI secolo)
e nel Canon Episcopi del Decretum Graziani (1147) – ritiene che gli “scellerati” che seguono Satana altro non siano
che “visionari sedotti dalle illusioni del demonio”. Sono uomini e donne, insomma,
che scambiano le immagini prodotte dalla loro mente – certo per operam diaboli
– per la realtà[137].
Con il che, Reginone tende a pensare che gli adepti del diavolo siano, prevalentemente
(con un linguaggio moderno) dei “disturbati mentali” da cui certo bisogna guardarsi,
ma che sono meno pericolosi degli eretici. Rimedio ad essi è, dunque, la predicazione,
il convincimento e la punizione senza però che tutto ciò trascenda in quell’atteggiamento
sessuofobo e persecutorio, che caratterizzerà i secoli successivi al XIII°. Il
mutamento sarà, infatti, radicale. Se si scorrono i
manuali degli inquisitori – primo e più importante di tutti il Malleus
Maleficarum – si percepisce una continua, martellante insistenza (precedentemente
sconosciuta) non solo sulla realtà materiale delle visioni diaboliche, ma sulla
ossessiva centralità del sesso nelle operazioni diaboliche. Centrati sulla corporeità
– e particolarmente su quella femminile – i pii ed ascetici inquisitori lasciano
le briglie sciolte ad un’ambigua fantasia erotica che rasenta il grottesco: «Che
cosa bisogna pensare» scrivono i domenicani Heinrich Krämer e Jacob Sprenger «di quelle streghe che raccolgono membri virili, talora anche in numeri
considerevoli, anche venti o trenta, e
li mettono nei nidi degli uccelli o in uno scrigno, in cui essi si muovono come
membri vivi, mangiando avena o altre cose come è stato visto fare da molti e come
comunemente corre voce?»[138].
A differenza, dei primi manuali inquisitori dove il punto focale era ancora centrato
sulla lotta alle eresie – come quello, celebre di Bernard Gui[139]
– e solo secondariamente sul problema del demonio e sulle pratiche sessuali dei
suoi adepti, a partire dalla seconda metà del 1400 l’interesse si appunterà esclusivamente
sul demonio, sulle streghe e sulle loro azioni libidinose. Da allora, uno dei
temi preferiti degli inquisitori sarà la minuta descrizione dei dettagli corporei
e sessuali che segnano la presenza diabolica. Tali dettagli, spessissimo, diventano
apertamente pornografici allorché si dilungano nella descrizione del membro del
diavolo, del suo sperma e nelle varie forme d’accoppiamento praticato nei sabba[140].
Il corpo diventa così il luogo privilegiato della peccaminosa realtà diabolica.
Ne viene che, negli interrogatori, il corpo discinto o nudo della strega diventa
oggetto di minuziose investigazioni alla ricerca di segni della presenza satanica
oppure diventa l’oggetto di sadica contemplazione nel corso della tortura[141]. Il che,
se per un verso, rivela un desiderio sessuale rimosso e trasferito in pulsioni
sadiche, per altro – e forse ancor più gravemente – mostra l’ansia spasmodica
dell’accertamento della presenza reale del diavolo. Il che mostra il bisogno di
provare, in modo empirico ed indiscutibile, attraverso la realtà del demonio incarnato
in un corpo (femminile, per lo più) l’esistenza di un Dio che appare – in virtù
della secolarizzazione[142]
lentamente operante – sempre più lontano dagli uomini. Sembra quasi che la furia
contro il corpo (e la sessualità) – paragonato quasi ad una eresia – voglia tener
lontano il rischio di un ritorno, tramite la sessualità ed il corpo ad una dimensione
ancestrale in cui natura, Terra, corpo e uomo si presentano come una unica unità.
La corporeità ed il sesso – in relazione alla secolarizzazione – diventano così
un pericolo da cui l’istituzione deve difendersi ad ogni modo, pena il rischio
di un’incontenibile regressione. In questo contesto sparirà quel (sofferto) equilibrio
tra Terra e cielo che, nel medioevo, sacralizzava – o quanto meno non disprezzava
– il corpo al punto di esaltare la stessa fisicità e sessualità di Cristo, simbolo
della perfezione umana e, quindi anche, corporea.
A fronte di un Cristo che non esita ad esibire la sua genialità bambina
e la sua piena virilità adulta – come accadrà ancora nell’umanesimo[143]
– si sostituirà, in perfetta sintonia con i deliri inquisitori, un Cristo dolente
e totalmente asessuato, lontano dalla Terra e degli uomini e sinonimo di una religione
repressiva e punitrice di tutto ciò che non è spiritualizzato. Il suo correlato
speculare sarà, ad esempio,l’abbandono della pratica del cosiddetto Risus Paschalis
che vedeva – nella Messa pasquale – il celebrante abbandonarsi a gesti scurrili,
a pratiche masturbatorie e a piccanti facezie per sottolineare la gioia della
Terra tutta nel festeggiare, con la Resurrezione, la vitalità del corpo unita
alla gioia dello spirito[144].
Era la chiara espressione che – nel nome del Sacro – era possibile che il conscio
partecipasse, senza tema di cadute regressive, all’istintualità e passionalità
dell’inconscio, rese manifeste dalla corporeità e dalla sessualità. Era, ancora,
la riprova che il padre celeste – estrinsecazione dello spirito – poteva unirsi
alla madre terrestre, espressione della materia, nel nome della complexio
oppositorum che è il segno, mistico e terreno ad un tempo, della totalità.
La stessa che era ed è presente in ogni tradizione simbolica, come insegna il
Dio indiano Siva che è, indistintamente, padre e madre, uomo e donna, ascetico
e erotico, divino ed umano. Come scrive Doniger a proposito della tradizione indiana-antica:«Anche
se dal punto di vista umano l’ascetismo si contrappone alla sessualità e alla
fertilità, dal punto di vista mitologico il tapas è esse stesso una potente
forza creativa, la potenza generatrice del calore ascetico»[145]. V. IL DECLINO DELLA CORPOREITÀ NELL’OCCIDENTE.
A seguito di quanto rilevato, si assiste – almeno in Occidente – ad un salto inusitato
ed incomprensibile, anche se del tutto conseguente alla storia della negazione
della corporeità e della Terra. Si sottrarranno, parzialmente, a questo destino
solo i grandi movimenti ereticali[146]
e rivoluzionari (oltre a qualche singolo e particolare individuo) che continueranno
a sottolineare la semplicità, la comunione dei beni, il libero amore, la nudità
rituale, il rapporto incorrotto con la natura, mantenendo viva – seppure a livello
di rizoma – una tradizione altrimenti soffocata. Al di là di queste frange marginali
e scarsamente significative a livello sociale, ciò che ha la meglio è la dimensione
spirituale del pensiero. Questo – arrogandosi la piena rappresentatività dello
spirito – ritiene che la compresenza dell’inconscio
nella forma della corporeità (in tutto l’ampio ventaglio delle sue espressioni)
possa in qualche modo impedire il suo sviluppo o, persino,
traviarlo, riproponendo un pericoloso ritorno all’ancestralità e primitività della
Terra. A partire all’incirca dalla seconda
metà del 1200 inizia, così, a dipanarsi un processo silenzioso – ma costante –
che, nell’assunzione progressiva della centralità del conscio (metafora, a sua
volta, del pensiero e della spiritualità), muta l’assetto sociale in due direzioni:
entrambe a dominanza maschile, entrambe lontane dal corpo e dalla Terra. La prima
riguarda il mondo borghese che inizia a prendere forma e a porsi come una forma
di cultura e di comportamento sociale in ascesa. La seconda attiene alla
progressiva istituzionalizzazione e burocratizzazione delle grandi strutture religiose
e politiche: come il papato e l’impero, non a caso in acerrima lotta fra di loro
per la supremazia. Sia l’una che l’altra basano il loro sviluppo sull’assoluta
superiorità del conscio (del pensiero e della razionalità) ed sul rifiuto di tutto
ciò che non lo riguarda. Tramite il conscio ed il progressivo (e strumentale)
utilizzo del logico-razionale – che acquista sempre più peso ed autorevolezza
– il mondo borghese pone le basi per uno sviluppo storico che si
concluderà con il suo assoluto predominio: sia a livello della realtà collettiva
che dei comportamenti individuali. Non differentemente, le istituzioni s’arroccheranno
– utilizzando la strumentazione del conscio-razionale – in una strenua difesa
ad oltranza della propria esistenza, sino al limite estremo di sacrificare ad
essa i propri scopi ultimi: sino ad esistere in funzione della propria riproduzione.
Per mezzo della burocratizzazione, esse tendono – come accade soprattutto per
la Chiesa – ad instaurare un controllo capillare che, tramite procedure razionalizzate,
considera tutto ciò che è libera espressione dell’istinto e del corpo (e anche
della pensiero creativo e non logico) come un attacco alla logica che presiede
alla loro conservazione e alla loro perpetuazione. La paura genera insomma i propri
avversari e questi confermano l’esistenza di una paura che, per difendersi da
loro, produce isolamento e chiusura in una struttura ferrea di controllo. Ne viene
il consolidamento – sempre più appiattito sulla razionalità come strumento di
potere – di tutto ciò che si oppone al libero, al creativo, al fantasioso, all’istintuale,
al passionale: in una parola al terreno-corporeo. In conseguenza di ciò, viene privilegiato
– in maniera assoluta – tutto ciò che appartiene al regno dello spirito visto
nei suoi aspetti logico-funzionali, abbandonando di conseguenza tutto ciò che
ha a che fare col corporeo o che appartiene, a qualche titolo, alla dimensione
inconscia. È una dimensione infatti – quella terrena-inconscia – che viene vista
come totalmente altra, abissalmente lontana rispetto al mondo dello spirito e
sua acerrima avversaria. In tal modo viene perseguita la negazione del corpo e
del materno e, con essi, del femminile-terreno. Così se il corpo non è santificato,
cioè reso etereo ed evanescente dallo spirito, o razionalizzato nel sapere scientifico
– ma è l’identica cosa – viene considerato come il regno abissale del demoniaco
e del primitivo, da cui bisogna guardarsi con tutte le proprie forze. Interessante,
significativo e sintomatico in proposito è il fenomeno dei santi che lievitano
innalzandosi al cielo, abbandonando fisicamente ciò che viene considerato come
un carcere o come un limite: il vero mondo– ancora una volta – non può essere
che quello uranico e spirituale. Con straordinaria nettezza, il vero
mondo si conferma quello celeste e spirituale, mentre quello terreno allunga le
sue propaggini nella sfera regressivo ed inferiore del naturalistico prima concepito
come demonico, poi come selvatico. All’inizio, il mondo terreno e corporeo, diventa
il doppio negativo del mondo spirituale (pensato sulla base delle gerarchie angelico-spirituali
dello Pseudo Dionigi)[147].
Non è un caso che – auspice questo modello mentale – la già citata persecuzione
delle streghe si radichi in un rifiuto
del terreno in cui il corpo diventa il laboratorio infernale del mondo degli antipodi.
Tale concezione rimarrà sostanzialmente inalterata – anche se mutata di prospettiva
– sino a quando le streghe inizieranno ad essere (timidamente) considerate malate
di mente[148].
In seguito, alla possessione del demonio si sostituirà l’idea della malattia mentale[149] come affezione
del corpo che – quando non è dedito e governato dalla dimensione spirituale –
soggiace alla caduta, regressiva, in una dimensione ancestrale, centrata sul corporeo:
diventa niente più che una manifestazione di selvatichezza. Naturalmente,
una simile polarizzazione attira nella sua orbita tutti coloro che rifiutano l’arroccamento
delle istituzioni e vogliono costruire una sorta di spiritualità al contrario,
prendendo le mosse dal corpo e dalla materia. È ciò che accade – come già ricordato
– con molte sette ereticali che rifiutando la cultura ufficiale in nome della
libertà sessuale, della comunanza delle donne e dei beni spesso si rifugiano in
una sfera psichica e sociale in cui, per sfuggire ad un Grande Padre-Padrone,
rischiano di diventare prigionieri non del demoniaco ma della Grande Madre. In
tal caso, tendono, sempre più a precipitare nel regressivo, nelle forme di materialismo
più sfrenato, dove il corporeo (e con esso, la Terra) diventa un fattore nevrotico
e ansioso che quasi sembra accreditare ciò che sostenevano, mistificando, i fautori
di una spiritualità ad oltranza. Non diversamente accade a coloro in cui il rifiuto
del mondo istituzionalizzato conduce ad una totale estraniazione della realtà.
È uno stato d’animo questo che, talora, degenera in psicosi: come accadrà a Nietzsche. La tendenza a burocratizzare e ad istituzionalizzare
– nel nome della ragione – sarà invece quella che prevarrà, plasmando il divenire
culturale e sociale dell’Occidente sino a diventare la sua storia: la nostra storia.
È una storia che, se – come si è già sottolineato – prende le mosse con la nascita
del cristianesimo, si rafforzerà con la secolarizzazione e con la sua tendenza
ad istituzionalizzare e a razionalizzare. Con la secolarizzazione, il padre uranico
e spirituale assume i tratti di un Grande Padre razionale che – come già si ricordava
a proposito del Super Ego freudiano – diventa tutt’uno con la coscienza, portando
il controllo all’interno della coscienza stessa. La coscienza, a sua volta, diventa
sempre più un fatto spirituale e razionale, sviluppandosi sino all’estremo limite
in cui – auspice Cartesio[150]
– si giungerà ad una pan-spiritualizzazione razionale che vedrà irrimediabilmente
contrapposta il regno della materia (la res extensa) ed il regno dello
spirito (res cogitans). Contrapposizione in cui la res estensa è
vincolata alle procedure di controllo razionale della scienza (la spiritualità
secolarizzata), mentre la res cogitans (il regno dell’intelletto e del
pensiero) se non vuol precipitare nel delirio deve ubbidire ad una legge – spirituale
anch’essa – che è data dalla ragione: come sancirà un secolo e mezzo dopo Immanuel
Kant con la Critica della Ragion Pura[151]. L’alternativa
– ossia la presenza del corporeo, dell’immediato, dell’emotivo, dell’inconscio
– coincide sempre con una regressività che se perde i lati demonici
(per molti aspetti ancora accettati), assume quelli segnati dall’ignoranza
e dalla brutalità da un lato (la barbarie sempre presente nell’uomo) oppure i
tratti della demenza, dall’altro: la pazzia, ossia il disturbo della coscienza.
Non è un caso che, nel mentre nasce dalla razionalità astratta dell’Illuminismo
il razzismo biologico[152], prenderà
avvio anche la reclusione coatta di tutti coloro che – in quanto malati di mente
– sono considerati un pericolo per la società[153]. Di questa tendenza sarà garante il mondo borghese, tutto sbilanciato
a favore della coscienza in nome della quale negherà – sotto ogni aspetto – il
corpo, sublimandolo nell’assoluta spiritualità della ragione e del pensiero: sino
al punto d’identificarli con la stessa immagine di Cristo, come farà Hegel con
il Leben Jesus, la vita di Cristo[154].
Chi si sottrae a questo destino storico o diventa socialmente un reietto oppure
viene considerato – se artista, letterato o filosofo – un diverso: un “malato”
di genialità cui guardare con sospetto e paura, ammirandolo ma emarginandolo.
Questa linea di sviluppo su cui si è plasmata la cultura borghese non si è certo
estinta: continua tutt’ora, sia pur con infinite varianti. Non ha avuto forme
evolutive, solo differenti manifestazioni. Anche oggi – dove il corpo viene esibito
in tutte le sue forme e la sessualità appare gettata in faccia a chiunque e ovunque
– si riscontra sempre la medesima preclusione. Il corpo è reso oggetto oppure
è pensato come oggetto: non è la trascrizione della totalità ma la trascrizione
di una idea, pensata erroneamente come totalità. Diventa preda dell’onnipotente consumo.
Il Grande Padre si è trasformato nel Grande Produttore, nel Grande Fratello. La
secolarizzazione ha secolarizzato il Grande Padre spirituale e razionale facendone
un’immagine persuasiva e pervasiva che, con la seduzione, opera l’obnubilamento,
la conformità e l’omologazione. In questa “razionalizzazione consumista” e coatta
si assiste ad una sorta di pan-inglobazione, dove il Padre-Fratello nel consumo
associa a sé anche il materno in una sorta di dimensione pericolosamente e continuamente
mutante nella sua costanza: una sorta di nuovo uroboro. È una dimensione
in cui tutto ciò che è consumabile – dal corporeo allo spirituale, all’istintuale,
al trasgressivo, al femminile-materno – viene consumato. Il consumo diventa l’essenza
del corpo, al pari dello spirito e solo allorché entrambi si sono consumati nella
malattia o nel disagio psichico, ci si accorge che l’uomo si è trasformato in
una maschera[155]:
una pura apparenza dietro cui si cela l’onnipresenza del mercato. Ma è troppo tardi. VI. PER CONCLUDERE. Quando l’uomo – nel momento della crisi
dell’Occidente – si rende conto di questo tormentato percorso, allora solo si
pone le domande, mai sopite, sul senso della corporeità e della spiritualità.
Allora solo si accorge – con raccapriccio – che lo spirito (il pensiero, la ragione
e quanto ne consegue) preso in se stesso è illusorio (della “sostanza del sogno”
come direbbe Shakespeare) e che bisogna fare i conti anche con il corpo, con la
Terra. Ossia con quello che siamo effettivamente e concretamente. Ma nel contempo
comprende che, spesso, la corporeità assolutizzata è una dimensione limitante
(anche se non un carcere, come voleva sia il neo platonismo che il cristianesimo)
se non è illuminata dalla dimensione della spiritualità. Allora solo percepisce
che al cammino dell’Occidente – che è individuale e storico insieme – è troppo
spesso mancata la dimensione della totalità: quella dimensione così ambigua e
sfuggente, senza di cui però non è possibile
vivere quell’esistenza che si dovrebbe vivere. La totalità, infatti, è armonia
e pienezza, è comprensione e sintonia, è fondamento e significato. Ma armonia
e pienezza, comprensione e sintonia, fondamento e significato non possono prescindere
dalla corporeità, a sua volta sinonimo di ciò che attiene alla Terra e al tutto.
Questo perché il corpo non è solo il nostro corpo, ma il corpo vivente del mondo
e l’utilizzo del corpo è l’utilizzo del corpo vivente del mondo. Ma proprio in
questo utilizzo cosmico del corpo si coglie la sua dimensione segreta, impalpabile,
ma assolutamente operante: la sua spiritualità. Solo nella partecipazione della
corporeità a questa dimensione si può cogliere ciò che trascende la corporeità
nascendo da essa, così come l’impalpabilità dell’amore nasce dal guardare, dal
sentire, dal toccare: nasce dai sensi per acquisire un valore spirituale. E questa
impalpabilità che si distilla dal corporeo è quintessenza spirituale. Il padre
– lo spirituale – nasce dalla madre, com’è scritto in un’antica iscrizione latina
riportata da Kerenyi: «In gremio ma tris sedet sapientia patris»[156].
Ma si potrebbe affermare – esattamente – il contrario. D’altronde, quella che viene considerata
la dimensione spirituale non è altro che fredda astrazione se non diventa carne
e sangue, al pari dell’amore che non esiste come amore astratto. L’amore è sempre amore
per qualcuno e questo qualcuno ha orecchi, occhi, mani e bocca, piedi: che sia
individuo o collettività poco importa. Persino l’amor dei intellectualis
implica sempre amore per l’altro: amore che nella tradizione simbolica universale
è sempre stato considerato come l’immagine di Dio vivente[157].
Così la corporificazione dello spirituale è amore per l’intero cosmo, perché il
corpo è il mondo: senza la materialità, senza il corpo non esiste la possibilità
di percepire la complexio oppositorum, non esiste possibilità di spiritualizzare
la vita. Senza la goethiana discesa nel misterioso e ctonio regno delle Madri
ossia nel profondo regno dell’inconscio – dove dimorano il passionale, l’istintivo
e il primordiale – non c’è neppure la possibilità di un conscio che non sia la
caricatura di se stesso. Allo stesso modo senza l’elevazione uranica – senza percorrere
la via del conscio, della coscienza – la materia, il corpo, la Terra rischiano
di essere ancorati unicamente all’onnipervasività dell’inconscio, senza poter
avere un respiro universale. Ancora una volta «In gremio ma tris sedet sapientia
patris», come diceva Kerenyi: e viceversa. Entrambi – lo spirito e il corpo,
il cielo e la Terra – rimandano ad una dimensione di totalità, a quella più volte
citata complexio oppositorum che è il segno di unione e di profonda armonia
con il tutto, come recita la Tabula Smaragdina attribuita a Ermete Trismegisto:
«Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che
è in basso, per compiere i miracoli della realtà che è una»[158].
Raggiungere la complexio oppositorum
significa vivere materialmente lo spirito e spiritualmente il corpo.Va da sé che
tutto questo può apparire una sorta di pia leggenda o una favola: in realtà è
una scelta estremamente concreta. Tale concretezza si può identificare in due
passaggi che sono vere e proprie prese di coscienza e il cui correlato è una radicale
trasformazione. Il primo passaggio coincide con il recupero del corpo nella
sua effettiva materialità. Equivale ed imparare a vivere in esso e usarlo come
un bene prezioso e non – cosa comune – come un puro oggetto di consumo. Il che
significa rivalutare, intelligentemente, l’istinto, l’impulso, l’immediatezza,
la passione, la sessualità, la sregolatezza e tutto quanto appartiene alle forme
più ancestrali della corporeità. Significa abbandonarsi al sogno, all’inconscio,
al materno: a tutto ciò che richiama il fiabesco e il meraviglioso. Il secondo
passaggio, equivale a recuperare lo spirito come capacità di pensiero, di
organizzazione e di logica: come ausilio della quotidianità, come uno scudo a
tutto ciò che è incontrollato. E’ un invito a tutte le forme di pensiero – comprese
quelle intuitive, meditative ed istintive – a riflettere su ciò che l’uomo è,
su ciò che lo circonda e sul senso della sua vita. Non coincide con un paterno
giudicante, ma con un paterno sapiente. Coincide con l’esperienza della saggezza
e con quella dell’eroismo. Equivale a vivere la quotidianità attribuendole un
senso. Ma spirito e corpo, cielo e Terra non
sono tra loro scindibili. La loro unione è la perfezione e da tale perfezione
non si può prescindere. Si potrebbe dire che altro non sono che il recupero di
un profondo senso del divino e del Sacro, entrambi fusione del conscio e dell’inconscio
in una potente dimensione di totalità: rappresentano il Graal fallico ed
uterino, insieme. Recuperare questa tensione all’unità non è raggiungere la meta,
ma è porsi sulla strada che conduce alla meta: convinti certo che si può solo
arrivare alle soglie del tutto, come scriveva Ernst Jünger. Andare oltre è un’altra storia. [1] Cfr. Plotino, Enneadi, V, 1, 8, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano, 19995, pp. 806-807. Su questa posizione si trova anche, autorevolmente, Domenico Conci che ravvisa in Parmenide – e particolarmente nel Proemio del Perì physeos – «l’atto di nascita di una esistenza trascendente e integralmente non materiale, costituita da realtà intelligibili totalmente altre rispetto alle esistenze sensibili che, quanto alle loro esigenze di esistenza e di senso, dipenderanno sempre totalmente dalle prime» (D. A. Conci, Tempi sacri e tempi profani di culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche in Annuario Filosofico, 17, 2001, pp. 145-146). In questo stacco epocale ed inaugurale, lo spirito si contrappone, evidentemente, alla materia corporea. [2] Secondo la testimonianza di Ippolito e di Alessandro, riportata da Teofrasto (Metaph., 984 b 3, p. 31, 7 H, cit. in I Presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, vol. I, Einaudi, Torino, 1976, p. 202) Parmenide – pur affermando che il tutto è uno è eterno, ingenerato e di forma sferica – «ammette due principi per stabilire l’origine dei fenomeni, il fuoco e la terra, dei quali l’uno è la materia, l’altro la causa e il principio efficiente». [3] Plutarco, Adv. Colot, 13, p.
1114 d in op. cit., p. 215. [4] Cfr. Simplicio, Phis, 38, 20
in op. cit., p. 216. [5] Cfr. Filodemo, Rhet. fr. inc., 3,7 in op. cit., p. 221. [6] Porfirio, Vita di Pitagora, 46, a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, 1998, pp. 172-173. [7] L’immagine di Pitagora dell’anima incatenata e quindi incarcerata è riportata da Porfirio in op. cit., cap. 26, pp. 154-155. [8] Op. cit., cap. 30, pp. 158-159. [9] Sul tema dell’associazione caverna (grotta, antro o, in generale, luogo sotterraneo) con la terra, in tutte le tradizioni simboliche, cfr. Caverna in J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, trad. it., Rizzoli, Milano, 19895, vol. I, pp. 234-239. [10] Cfr. Platone, Repubblica, VII, 514 A-C e 515 A-C in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano, 19923,p. 1238. [11] Op. cit., 516 A-B, p. 1239. [12] Cfr. op. cit., 517, B-D, p.
1240. [13] Nei gruppi o sette orfiche, il corpo veniva considerato una prigione in cui l’anima scontava le colpe del passato (cfr. E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 191 ss. [14] «In verità vivono coloro che si allontanarono dai vincoli del corpo come da un carcere, quella che voi dita essere la vita altro non è che morte» (Marco Tullio Cicerone, Somnium Scipionis, III, 2) [15] Sul tema della discesa e della risalita fondamentale – e riepilogativa – è la consultazione di I. P. Couliano, I viaggi dell’anima. Sogni, visioni, estasi, trad. it., Mondadori, Milano, 1994 e partic. p. 179 ss. [16] Tralasciando i “pii” eccessi dei santi monaci del deserto, basta considerare come la regola di San Benedetto – destinata a diventare il modello che ispirerà ogni ordine religioso e ogni esperienza mistico-ascetica – afferma, espressamente, nell’indicare «Quae sunt instrumenta bonorum operum (Quali sono gli strumenti delle buone opere)» che è necessario «Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christum, corpus castigare (Rinnegare se stesso per seguire Cristo, castigare il corpo)» (Regula Sancti Benedicti in La Regola di San Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Valla – Mondadori, Milano, 1995, pp. 144-145). [17] Rom., 8, 3-4. [18] «Acceso di amore per la vita contemplativa» (Eginardo, Vita di Carlo Magno, a cura di G. Bianchi, Salerno, Roma, 1988, p. 46). [19] «Reprimi in noi il nemico che il corpo non contamini» (Te lucis ante terminum in Innario cistercense, trad. it., Mondadori, Milano, 1994, pp. 38-39). [20] Nel Veni Creator Spiritus – una delle più solenni preghiere della Chiesa – è scritto: «Accende lumen sensibus:/ infonde amorem cordibus,/ infirma nostri corporis/ virtute firmans perpeti (Accendi la luce nei sensi,/ infondi l’amore nei cuori,/ tu rafforza di virtù eterna/ i nostri corpi deboli)» (op. cit., pp. 66-67). [21] Innocenzo III, De contemptu mundi, trad. it., Cantagalli, Siena, 19843, p. 22. [22] Op. cit., pp. 22-23. [23] «Trionfare su se stesso è vittoria perfetta. Chi infatti sa dominarsi in modo così completo che i sensi obbediscano alla ragione e la ragione obbedisca in tutto a me, è il vero vincitore di sé e il padrone del mondo» (Imitazione di Cristo, LIII, 2, trad. it., BUR, Milano, 1974, pp. 310-311) [24] Il concetto di arco storico come strumento teorico per comprendere fenomeni storici e culturali si deve a Giulio Maria Chiodi che lo considera come la prospettiva epigonale di un periodo storico (il nostro) da cui prendere le mosse per comprendere il momento germinale dello stesso (cfr. Orientamenti di filosofia politica, Vangelista, Milano, 1974, p. 18 ss). Nello specifico, l’arco storico di riferimento è quello – visto nella prospettiva del presente – da cui prende inizio la negazione della corporeità e la sopravvalutazione dello spirituale. [25] Porfirio, La vita di Pitagora, 47 op. cit., p. 174-175. [26] Plotino, Enneadi, IV, 8, 8 in op. cit., pp. 772-773 e V, 1, 12 in op. cit., pp. 812-813. Questo fa si che pensiero ed intelletto diventino, sostanzialmente, sinonimi. [27]
Molto spesso la Madonna viene effigiata in piedi su di un quarto di luna, Anche
in questo caso, la femminilità celeste trionfa sulla luna che è notoriamente un
‘immagine’ del femminile, vista sia come la Grande Madre primordiale – e quindi
anche tutt’uno con l’inconscio – sia come simbolo del eterno rinnovarsi del corporeo
(cfr. Luna in J, Chevalier –A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli,
op. cit., vol. II, pp. 44-49). Sulla Vergine Maria e sulla sua simbologia,
cfr. in generale – nell’infinita quantità di possibili riferimenti – K. Schreiner,
Vergine, madre, regina, trad. it. Donzelli, Roma, 1994 e anche Ch. Mulack,
Maria, trad. it., RED, Como, 1996. [28] Dante Alighieri, Divina Commedia – Il Paradiso, vv. 103-105, a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, 19639, p.15. [29] Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I, qu. 80 art. 2. Si vedrà più oltre come San Tommaso rivaluti, in chiave religiosa, la corporeità e, persino, la sessualità. [30] Sul tema del peccato (in ebraico chet) in rapporto alla sessualità e quindi al corpo nella tradizione ebraica cfr. Peccato e Peccato Originale in A. Unterman, Dizionario di usi e leggende ebraiche, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 222. [31] Gen., 2, 6-7. [32] In realtà, tale rapporto è – come si vedrà – estremamente ambiguo e strutturalmente contraddittorio. Così alcuni gruppi gnostici – anche se non minoritari – accanto ad una dimensione di inequivocabile condanna per il mondo terreno e corporeo, postuleranno invece l’idea che il corpo (e la sessualità) siano gli strumenti privilegiati ed indispensabili per il processo di ritorno al Pleroma. [33] Cfr. Inno della perla in H. Jonas, Lo gnosticismo, trad. it. SEI, Torino, 1973, p. 131. Il mare dell’Egitto è tutt’uno con le acque primordiali, le "acque degli abissi" o "acque inferiori" simbolo ancestrale del femminile-materno-terribile: è la Grande Madre considerata nel suo aspetto creativo, in senso concreto (cfr. E. Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell'inconscio, trad. it., Astrolabio, Roma, 1981, p. 56 ss.). Le acque primordiali, a loro volta, coincidono con la condizione inconscia, estranea alla conoscenza, dalla Gnosi e prossima invece allo stato naturale. Sono rappresentate dal serpente uroborico (simbolo della totalità primordiale) che si morde la coda (op. cit., p. 181), simile a quello che nell'Inno ha in custodia la Perla, simbolo della conoscenza gnostica. [34] Eugnosto il Beato, 75, 10 in Testi gnostici, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino, 1982, p. 448. [35] Origine del mondo, 98, trad. it. in La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, a cura di L. Moraldi, TEA, Milano, 1982, p. 82 e anche Pistis Sophia, I, 30, 2, in Testi gnostici, op. cit., p. 529. [36] Apocrifo di Giovanni, 9-10 in La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, op. cit., p. 13. [37] Pistis Sophia, I, 32 in in Testi gnostici, op. cit., pp. 532-535. [38] Cfr. G. Filoramo, L'attesa della fine. Storia della Gnosi, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 119. [39] Origine del mondo, 98, in La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, op. cit. ,p. 82; Natura degli arconti, 94, in La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, op. cit., p. 67 e Scritto senza titolo in NHC, II, 5. [40] Cfr. M. Eliade, Mefistofele e l'androgine, trad. it., Edizioni Mediterranee, Roma, pp. 15-70 e partic. p. 36. Di questo primo atto creativo si danno diverse varianti, in una si narra che la parte esterna di Sophia, come ombra, per invidia, si autofeconda (ma siamo sempre all'interno di Sophia) dando luogo all'invidia, che è il primo di una serie di passaggi che conducono alla materia e al creatore terreno (cfr. Origine del mondo, 99-100, op. cit., pp. 82-83). [41] Ireneo di Lione, Contro le eresie, I, 8, 5, a cura di P. Vittorino Dellagiacoma, Cantagalli, Siena, 1984, vol. I, p. 50. [42] L'interpretazione etimologica di Jaldabaoth come giovinetto è proposta dall'autore di Origene del mondo (op. cit., p. 83). In merito cfr. anche Natura degli arconti, op. cit., nota 5, pp. 71-72. [43] Cfr. sull'invidia, Natura degli arconti, 96, op. cit., pp. 68-69. [44] Secondo discorso del Grande Seth, 53, 30 in Testi gnostici, op. cit., p. 318. [45] Natura degli arconti, 86, in La Gnosi e il mondo, op. cit, p. 59 e Apocrifo di Giovanni, 11, op. cit., p. 16. Quanto afferma Jaldabaoth è, secondo gli gnostici, la prova provata che il Dio dell'Antico Testamento è una divinità menzognera, malvagia, negativa, inferiore e frutto di corruzione. Come tale è la causa della corruzione del mondo ilico che da lui prende origine, come racconta il Genesi. E' interessante che per gli gnostici, il vero Dio, padre primordiale, è il Deus Absconditus del Pleroma, definibile soltanto per via apofatica (cfr. Trattato Tripartito, 51-55 in Testi gnostici, op. cit., pp. 350-353) e non per via catafatica come avviene, invece, nel Genesi. [46] Origine del mondo, op. cit., p. 84. Anche in questo caso, il brano parafrasa la forza creativa del dio ebraico. [47] Apocrifo di Giovanni, op. cit., p. 49, nota 30. [48] Cfr. Testi delle piramidi, 1248°-1249d in Testi religiosi dell’Antico Egitto, a cura di E. Bresciani, Mondadori, Milano, 2001, p. 13. [49] Cfr. Geb e Nut in B. De Rchewiltz, I miti egizi, TEA, Milano, pp. 78 e 146-147. Sarà, non casualmente, il padre Atum-Ra a voler interrompere il loro accoppiamento. [50] Mille Canti in onore di Ammone e di Tebe – Stanza novantesima (Papiro di Leida n. 350) in Testi delle piramidi, op. cit., p. 31. Un’analoga apologia della sessualità come frutto divino (e non come conseguenza del peccato) si trova anche, ad esempio, nell’Inno ad Aton, trovato ad El Amarna, dove è scritto negli attributi perspicui del Dio: «Tu che procuri che il germe sia fecondo nelle donne, tu che fai la semenza negli uomini» (Inno a Aton in Testi religiosi egizi, a cura di S. Donatoni, TEA, Milano, 1988, p. 317). [51] Va detto che il tema dell’unione o matrimonio tra il cielo e la terra è uno dei miti universalmente più diffusi (cfr. Cielo e Terra in J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, op. cit., vol. I, pp. 263-268 e vol. II, pp. 465-467. [52] Rgveda in Miti dell’induismo, a cura di W. Doniger O’Flaherty, trad. it., TEA, Milano, 1994, p. 28. [53] Kalika-Purana, XX, 10-13 in A. Danielou, Miti e dei dell’India, trad. it., RED, Como, 1996, p. 108. [54] Tao Te Ching – Il Libro della Via e della Virtù, XLII, a cura di J.J.L. Duyvendak, Adelphi, Milano, 1973, p. 107. [55] Esiodo, Teogonia, vv. 126-128. [56] Cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it., Einaudi, Torino, 1954, p. 245 ss. [57] P. Filippani-Ronconi, Miti e religioni dell’India, Newton Compton, Roma, 1992, p. 43. [58] Brhad-aranyaka-upanisad, Seconda lettura, quinto brahmana in Upanisad antiche e medie, a cura di P. Filippani-Ronconi, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 80-81. [59] H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, a cura di J. Campbell, trad. it., Mondadori, Milano, 2001, p. 462. [60] Cfr. op. cit., p. 467. [61] Op. cit., p. 465. [62] Ph. Rawson, Tantra. Il culto dell’estasi, trad. it., RED, Como, 1989, pp. 8-9. [63] Scrive Claudio Risé che è comune a tutta la filosofia orientale pensare che: «”maschio e femmina sono una cosa sola” o meglio sono aspetti diversi della realtà il cui compito e destino è quello di ricongiungersi per fare nuovamente “l’esperienza della totalità che li rende uno”» (C. Risé, Presentazione a A. Thirleby, Tantra, trad. it., Lyra, Como, 1987, p. 15). [64] Il Tantrismo ritiene – tramite la meditazione e gli atti rituali centrati sul corpo e sulla sessualità – di poter «capovolgere la Genesi e fissare direttamente l’atto continuo della creazione» (Ph. Rawson, Tantra. Il culto dell’estasi, op. cit., p. 16). Il che significa collocarsi in una temporalità mistica. [65] Cit. in Jh. Michell, Lo spirito della terra, trad. it., Red, Como, 1988, p. 7. [66] J.E. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 22. [67] Cfr. Orapollo, I Geroglifici, a cura di M. A. Rigoni e E. Zanco, BUR, Milano, 1996, pp. 80-83 e anche nota 3 a p. 82. [68] Cfr. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1978, p. 27 ss. [69] Fondamentali – anche se contestati – sono stati gli studi bachofeniani sulla ginecocrazia antica (cfr. in proposito J. J. Bachofen, Il matriarcato, vol. I e II, trad. it., Einaudi, Torino, 1988). Per un inquadramento su Bachofen, cfr. F. Jesi, I recessi infiniti del “Mutterrecht” in op. cit., p. XIII-XXXV. Mentre per ciò che riguarda il femminile e il potere, cfr. A.A. V.V., Il femminile tra potenza e potere, Arlem, Roma, 1995. [70] Cfr. J. Dupuis, Storia della paternità, trad. it., Tranchida, Milano, 1992, pp. 17-18. Dupuis si basa, prevalentemente, sulle osservazioni di Eliade e di Malinowski. [71] Cfr., op. cit., p. 17 ss. [72] C. G. Jung, Aspetti psicologici dell’archetipo della Madre in Opera, vol. 9, tomo primo, trad. it., Boringhieri, Torino, 19883, p. 100. [73] Sul tema delle Grandi Madri, in una interessante anche se generale prospettiva, cfr. Le Grandi Madri, a cura di T. Giani Gallino, Feltrinelli, Milano, 1989. [74] Cfr E. Neumann, La Grande Madre, op. cit., p. 97 ss. [75] Cfr. op. cit., p. 98-99. [76] Sul simbolismo del vaso come icona della terra-femminile, cfr. op. cit., p. 48 ss. [77] Op. cit., p. 101. [78] Sul simbolismo della montagna e sul suo valore sacrale, cfr. – tra gl’infiniti testi in proposito – C. Bonvecchio, Il simbolo, il sacro e la montagna in Quaderni del simbolico, a cura di D.Mazzù, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 63-92. [79] E. Neumann, La Grande Madre, op. cit., p. 102. [80] E. Neumann, Il significato dell’archetipo della Terra nell’era moderna in E. Neumann, K. Kerényi, D. T. Suzuki, G. Tucci, La Terra madre e Dea – Quaderni di Eranos, trad. it., RED, Como, 1989, p. 39. [81] Cfr. L. Levy Bruhl, L’anima primitiva, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 26 ss. [84] Cfr.J. Dupuis, Storia della paternità, op. cit., p. 51. Secondo Dupuis, per i primitivi, la donna era un essere terribile e pericoloso. [85] Cfr. Miti dell’Induismo, a cura di W. Doniger O’Flaherty, trad. it., TEA, Milano, 1994, p. 255. [86] «Senza l’energia creatrice, raffigurata come dea, Siva è corpo senza vita (sava), incapace d’agire, di manifestarsi, di realizzare la sua ideazione del mondo» (A. Danielou, Siva e Dioniso. La religione della natura e dell’Eros, trad. it., Ubaldini, Roma, 1980, p. 72). [87] Bramavaivarta Purana cit.in A. Mookerjee, Kali. La dea della forza femminile, trad. it., RED, Como, 1990, p. 52. Sul rapporto di Siva con il femminile, cfr. W. Doniger, Siva. L’asceta erotico, trad. it. Adelphi, Milano, 1997, passim. [88] Cfr. il già citato W. Doniger, Siva. L’asceta erotico o A. Danielou, Siva e Dioniso. La religione della natura e dell’Eros, op. cit., p. 74 ss. [89] A. Mookerjee, Kali. La dea della forza femminile, op. cit., p. 52. [90] A. Danielou, Miti e dei dell’India, op. cit., p. 260. [91] Cfr. Il libro tibetano dei morti, a cura di G. Tucci, TEA, Milano, 1988. [92] A. Portmann, Riti animali in E. Neumann – A. Portmann – G. Scholem, Il Rto – Quaderni di Eranos, trad. it., RED, Como, 1991, p. 84. [93] Cfr. K. Schreiner, Vergine, madre, regina, op. cit., p. 17 ss. [94] Cfr., ad esempio, i quadro raffigurante l’Anunciazione di Bartel Bruyn, Colonia, XVI secolo in E. Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell'inconscio, op. cit., p. 172. Ci sono numerose varianti di quest’immagine dell’Annunciazione. In alcuni casi, il raggio è diretto al volto (come nel caso dell’Annunciazione di Giovanni del Biondo nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella e ora all’Accademia) in altri al cuore (come nell’Annunciazione del Maestro ignoto della Madonna Straus, conservato a Firenze, all’Accademia). Le varianti non mutano, comunque, il significato originale. [95] S. Freud, L’Io e l’Es in Opere, volume nono, trad. it., Boringhieri, Torino, 1977, p. 497. [96] Op. cit., p. 510. [97] L’espressione – tragicamente affermatosi come uno stereotipo politico del Nazismo (cfr. in merito A. Bramwell, Ecologia e società nella Germania Nazista, trad. it., Reverdito, Trento, 1988, p. 87 ss.) – rende, con molta plasticità lessicale ed immediatezza cognitiva la forza del materno e dell’istintuale. [98] «In principio Iddio creò il cielo e la terra….Iddio disse: “Sia la luce!” e la luce fu» (Gen., 1, 1-3). [99] «E il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne anima vivente» (Gen., 2, 7). [100] La leggenda ebraica racconta – nelle numerose varianti dei Midrashim – di un uomo artificiale creato, magicamente, dai Kabbalisti modellando la terra e animato con un cartiglio recante la scritta del tetragramma posto sotto la lingua o inciso sulla fronte. Cfr. – per una visione generale – sia Golem in A. Unterman, Dizionario di usi e leggende ebraiche, op. cit., pp. 129-130, che J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, op. cit., vol. I, pp. 523-524. Per uno studio più approfondito sul Golem e sui suoi rapporti con la terra, cfr., invece, G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, trad. it., Einaudi, Torino, 1980, p. 201-257. [101] Gen., 2, 27. [102] «E separò le luci dalle tenebre» (Gen., 1, 4). [103] Ambrogio, Exameron – Commento ai sei giorni della Creazione, I, 2, 7, a cura di G. Coppa, TEA, Milano, 1995, p. 8. [104] Inno a Aton in Testi religiosi egizi, op. cit., p. 318. [105] Si legge, esplicitamente, nell’Inno: «Non c’è nessuno altro che ti [Aton] conosca eccetto il tuo figlio Nefer-kheperu-Ra Ua-en-Ra [titolo regale del faraone Ekhnaton]» (op. cit., p. 319) e, ancora più esplicitamente «tu li alzi [gli occhi] per tuo figlio che è uscito dal tuo corpo, il re della Valle e re del Delta che vive della verità, il signore dei Due Paesi Nefer-kheperu-ra, il figlio di Ra che vive della verità, il signore delle corone Ekhnaton» (op. cit., p. 320). [106] S’intende per Sacro quella dimensione in cui si realizza la perfetta fusione d’inconscio e di conscio. [107] E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, op. cit., p. 371. [108] Rivkah Schärf Kluger, Re Saul e lo spirito di Dio in Psiche e Bibbia, trad. it., Giuntina, Firenze, 1991, p. 71. [109] C. G. Jung. Risposta a Giobbe in Opere vol. 11, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 362. [110] Op. cit., p. 395. [111] Op. cit., pp. 349-350. [112] «Yahwèh non è diviso in due, egli è un’antinomia, una totale opposizione interna, l’indispensabile presupposto della sua mostruosa dinamica, della sua onnipotenza e della sua onniscenza» (op. cit., p. 347). [113] Come scrive Jung: «Egli è…la giustizia assoluta ma, allo stesso tempo, anche il suo contrario» (op. cit., p. 350). [114] Molto meno generosamente, gli gnostici da questo atteggiamento dedurranno il carattere arcontico e negativo del Dio dell’Antico Testamento, facendone il nemico prioritario dell’uomo. [115] Secondo Jung, Yhwh pur perseguendole «non comprende le ragioni che lo spingono a esigere di venire sempre magnificato come il “Giusto”» (C. G. Jung. Risposta a Giobbe, op. cit., p. 349). [116] Scrive Thomas Mann con quella percezione dell’insondabile mistero del divino che possiedono i poeti ed i letterati: «Il patto di Dio con lo spirito umano, attivo e presente in Abramo, il viandante, era un patto che aveva per fine ultimo la santificazione di ambedue e in cui il bisogno che Dio ha dell’uomo e l’uomo di Dio si intrecciavano in tal modo che non si può dire da quale parte, se da Dio o dall’uomo, sia partito il primo impulso a questa cooperazione. Un patto, in ogni caso, la cui conclusione mostra che il santificarsi di Dio e dell’uomo rappresenta un doppio processo e le due cose sono intimamente “legate”» (Th. Mann, Le storie di Giacobbe in Giuseppe e i suoi fratelli, trad. it., Mondadori, Milano, 1971, vol. I, p. 389). [117] C. G. Jung. Risposta a Giobbe, op. cit., p. 355. [118] Cfr. op. cit., p. 385. [119] «Si aprirono allora gli occhi a tutt’e due e videro che erano ignudi; quindi cucite insieme delle foglie di fico, se ne fecero delle cinture» (Gen., 3, 7). [120] L’antica legge eraclitea dell’enantiodromia è stata ripresa in tempi moderni da Jung e si può considerare valida tanto nella psicologia e nella gnoseologia che nella realtà. Secondo questa legge, ogni cosa tende ad andare necessariamente verso il suo contrario. «Il vecchio Eraclito,» scrive Jung «che era davvero un grande saggio, ha scoperto la più meravigliosa di tutte le leggi psicologiche: la funzione regolatrice dei contrari. A questa legge dette il nome di ”enantiodromia”, ossia corso in senso opposto, con il che intendeva dire che ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario….L’atteggiamento razionale dell’uomo civile si ribalta necessariamente nel suo contrario, cioè nell’irrazionale devastazione della civiltà» (C. G. Jung, Psicologia dell’Inconscio in Opere, vol. 7, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1993, pp. 72-73). [121] C.G. Jung, Interpretazione psicologica del dogma della Trinità in Opere, vol 11, op. cit., p. 155. In molti passi Jung sottolinea come nell’immagine archetipica di Cristo-Sé-totalità sia assente il male e quindi, per molti, aspetti non lo si possa intendere come una compiuta complexio oppositorum. Posizione questa che si risolve – giustamente – nella vicenda tenebrosa-luminosa del dramma dell’incarnazione che si presenta nell’uomo come processo individuativi, ossia come costruzione di una completa ed armonica personalità (op. cit. pp. 155-156). Più semplicemente, forse, si potrebbe dire che Cristo partecipa al male in quando nella sua immagine umana è compartecipe dello stacco dell’uomo dalla totalità originaria e pleromatica: cosa questa che, appunto, si può concepire come degenerazione dalla premeva condizione e, quindi, come qualcosa di male. [122] C. G. Jung, Il simbolo della trasformazione nella Messa in Opere, vol. 11, op. cit., p. 214. [123] Maria, ben più che nei Vangeli canonici, riveste in quelli gnostici un carattere iniziatico e sapienziale e non solo esclusivamente emotivo, in quanto madre carnale del Salvatore (va detto però che questa Maria potrebbe essere Maria Maddalena e non Maria Vergine, come ritiene L. Moraldi in op. cit., p. 106, ma questo nulla cambia). Infatti è scritto: «Pietro disse a Maria: “Sorella, noi sappiamo che il Salvatore ti amava più delle altre donne. Comunicaci le parole del Salvatore che tu ricordi, quelle che tu conosci, (ma) non noi; (quelle) che noi non abbiamo neppure udito”. Maria Rispose e disse: “Quello che a voi è nascosto, io ve lo comunicherò”» (Vangelo di Maria 10, 10 in Vangeli Gnostici – Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di L. Moraldi, Adelphi, Milano, 1984 [124] Vangelo di Filippo, 63, 33-64 in Vangeli Gnostici – Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, op. cit., pp. 58. La grande importanza della figura di Maria Maddalena compare anche in Pistis Sofia (a cura di L. Moraldi, Adelphi, Milano, 1999) ad esempio nel suo essere depositaria del mistero dell’ineffabile (94, 2-3, p. 183) [125] Vangelo di Filippo, 66 in op. cit., p. 60. [126] Op. cit., 64, 30, p. 59. [127] Op. cit., 70, 10-20, p. 64. Poco prima, Cristo aveva parlato dell’unione tra l’uomo e la donna come “il santo dei santi” e come ciò che rende “vestiti di luce perfetta” (op. cit., 69, 30 e 70, p. 63). [128] G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, op. cit., p. 285. [129] Cfr. A. Magris, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia, 1997, p. 451. [130] Su tutti questi aspetti esiste un’imponente letteratura. Trascurando quanto attiene agli aspetti prettamente novellicisti (Decamerone e Racconti di Canterbury), cfr. invece, tra i tanti, G. Cocchiara, Il paese di cuccagna, Boringhieri, Torino, 1980; P. Camporesi, La carne impassibile, Il Saggiatore, Milano, 1991; J. Delumeau, Il peccato e la paura, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1987 o F. Cardini, Alle radici della cavalleria medioevale, La Nuova Italia, Firenze, 1997. [131] Nella Leggenda Aurea, costante è il richiamo alla corporeità, che sia la corporeità martirizzata. ammalata, sacralizzata, trasfigurata o redenta, in fondo poco importa (cfr. Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, a cura di C. Lisi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1990). Sulla ricerca, meravigliosa, di mondi altri e di una corporeità diversa (compreso il suo mitico rinnovamento) cfr. C. Bonvecchio, The Perfect Kingdom in Eranos – The Shadow of Perfection – Yearbook, 1996, Spring, Woodstock, 1996. [132] San Francesco, Il cantico delle creature in Tutti gli scritti, Longanesi, Milano, 1972, p. 123. [133] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-Iiae, q. 25, a. 5). [134] Cfr. M. C. Jacobelli, Il Risus Paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana, Bresca, 19913., p. 126, nota 53.. [135] Op. cit., p. 126, nota 53. San Bonaventura afferma esplicitamente: «in spiritualibus affectionibus carnalis fluxus liquore maculantur». [136] Cfr. E. Zolla, I mistici dell’Occidente, Adelphi, Milano, 1997, vol. I, passim. [137] Reginone di Prümm, Libri de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis cit. in A. M. Di Nola, Il diavolo, Newton Compton, Roma, 1999, p. 252. Reginone associa il diavolo ed il suo culto a quello, pagano, di Diana che poi è tutt’uno con il culto femminile, in ultima istanza riportabile a quello della Grande Madre. [138] H. Krämer O.P. – J. Sprenger O.P., Il martello delle streghe, trad. it., Marsilio, Venezia, 1977, p. 218. [139] Cfr. Bernard Gui, Manuale dell’Inquisitore, commento di F. Cardini, trad. it., Gallone, Milano, 1998. [140] L’esemplare descrizione di alcuni particolari di un sabba vale per tutti: «il capro [satana] condusse la sposa lontano dalla turba e gettatala per terra la penetrò. Il coito fu sgradevole e senza piacere per la donna, come la stessa diceva, e con una sensazione di acuto dolore e di orrore, perché sentiva il seme del capro freddo come il ghiaccio» (Francesco Maria Guaccio, Trattato di demonologia, trad. it., Fratelli Melita Editori, Genova, 1988, p. 67). [141] H. Krämer O.P. – J. Sprenger O.P., Il martello delle streghe, op. cit., p. 383 ss. [142] Secolarizzazione è un termine – specifico del diritto canonico degli ultimi decenni del cinquecento – che ha, originariamente, una connotazione esclusivamente giuridica: significa, sostanzialmente, la riduzione di un religioso allo stato secolare. Cfr., in merito, G. Marramao, Cielo e terra. Genealogie della secolarizzazione, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 16. In merito alla secolarizzazione cfr. ancora – a titolo esclusivamente indicativo, considerata la sterminata bibliografia sussistente – H. Lübbe, La secolarizzazione: storia e analisi di un concetto, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1970; A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano, 1970; F. Gogarten, Destino e speranza nell’epoca moderna. La secolarizzazione come problema teologico, trad. it., Morcelliana, Brescia, 1972; La secolarizzazione, a cura di S. Acquaviva e G. Guizzardi, Il Mulino, Bologna, 1973; G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Editori Riuniti, Roma, 1985; R. Koselleck, Accelerazione e secolarizzazione, Istituto Suor Orsola Benincasa – ESI, Napoli, 1989; W. Pannenberg, Cristianesimo in un mondo secolarizzato, trad. it., Morcelliana, Brescia, 1991; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. it., Marietti, Genova, 1992; C. Bonvecchio, Secolarizzazione, Logos, Nomos: alcune riflessioni in Esperienza giuridica e secolarizzazione, a cura di D. Castellano e G. Cordini, Giuffé, Milano, 1994, pp. 237–241. [143] Esiste tutta una iconografia in cui il Cristo bambino viene raffigurato con i genitali visibili. Tale iconografia trionfa nel periodo umanistico dove il Redentore non solo viene raffigurato completamente nudo e con i genitali completamente esibiti (come nel Battesimo di Cristo nel mosaico ravennate del 500, nel Crocifisso di Donatello a cui è stato aggiunto un perizoma, nel celebre Cristo risorto di Michelangelo conservato con un perizoma di bronzo in Santa Maria sopra Minerva), ma anche in piena erezione come in molti quadri e xilografie: è il caso del Cristo in Croce di Hans Burgkmair, della Pietà di Willem Key, della Pietà di Jacques Bellange, del Cristo trionfatore sul peccato e sulla morte di un anonimo fiammingo della seconda metà del 1500, del Cristo dolente di Ludwig Krug, del Cristo dolente di Maerten van Heemskerck e di altri ancora. Cfr., in proposito, L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1986. Si può considerare questa tendenza come l’accentuazione dell’umanità gloriosa di Cristo in cui il sesso non ne rappresenta la limitazione, ma, anzi, ne è la piena conferma [144] Cfr. M. C. Jacobelli, Il Risus Paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, op. cit. Questo uso che che si fondava sulla concezione della divina corporeità – e sulla sessualità come sua estrinsecazione – inizierà a decadere con l’avvento della Riforma e con il rigorismo sessuofobo che, tanto per i protestanti che per i cattolici, ne sarà una delle conseguenze (cfr. op. cit, p. 16 ss.). [145] W. Doniger, Siva, op. cit., p. 65. [146] Cfr. il classico N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, trad. it., Comunità, Milano, 19762. [147] Su questo speculare parallelismo che vede il mondo infero che una gerarchia articolata e pensata sul modello celeste, a sua volta proiezione di quello terreno, cfr. Jh. Weyer, Pseudomonarchia daemonum. Organigramma dell’inferno, a cura di P. Pizzari, Mondadori, Milano, 1994. [148] La prima, coraggiosa, presa di posizione in tal senso è attribuibile sempre a Jh. Weyer con il suo De lamiis, Basel, 1563. [149] Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it., Rizzoli, Milano, 19783. [150] Cfr. R. Cartesio, Discorso sul metodo, a cura di A. Carlini, Laterza, Roma-Bari, 199128. [151] Con la Critica della Ragion Pura è la stessa ragione che stabilisce i suoi fondamenti e, con essi, la possibilità dell’esperienza umana. Fuori di essa c’è il regno del noumenico: regno incontrollato e pericoloso, pieno d’insidie e di antinomie. [152] Diventa impossibile non concordare con Mosse, quando afferma: «in breve, il razzismo ebbe le sue fondamenta sia nell’Illuminismo sia nel risveglio religioso del XVIII secolo. Esso fu il prodotto del profondo interesse per un universo razionale, per la natura e per l’estetica, ma anche dell’esigenza di dare rilievo alla forza eterna del sentimento religioso e all’anima dell’uomo; esso d’altra parte rientrava nella tendenza a definire il posto dell’uomo nella natura e si accordava con la speranza in un mondo ordinato, sano e felice. Infine, il pensiero razzista fece un tutt’uno dell’aspetto esteriore dell’uomo con il suo posto nella natura e il corretto procedere del suo spirito» (G. L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, trad. it., Mondadori, Milano, 1992, p. 7). [153] Cfr. M. Foucault, La nascita della clinica, trad. it., Einaudi, Torino, 1969. Non è casuale che la pazzia sia stata considerata, prevalentemente, come tipica del carattere femminile. [154] G.W. F. Hegel, Vita di Gesù, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1971. [155] Cfr. in merito, C. Bonvecchio, L’uomo e la maschera in La maschera e l’uomo, Franco Angeli, Milano, 2002, pp.13-40. [156] «In grembo alla madre siede la saggezza del padre» (cit. in K. Kerenyi, La madonna ungherese di Verdasio, trad. it., Dadò, Locarno, 1996, p. 41). [157] Cfr in proposito C. Bonvecchio, Il simbolo dell’altro: la modernità di fronte al simbolico in Immagine del politico, CEDAM, Padova, 1995, p. 145-181. [158] Tabula Smaragdina in C. Cristiani – M. Pereira, L’arte del sole e della luna. Alchimia e filosofia nel medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1996, p. 116. |